Vogliamo raccontare una storia al ministro Gelmini e tutti quelli che pensano che tagli e liberalizzazioni siano le uniche ricette buone per uscire da una crisi. Si tratta ovviamente di una storia a lieto fine che, come molte di quelle raccontate in questi ultimi tempi, ha inizio con la caduta del muro di Berlino. Siamo in Finlandia e le statistiche ufficiali sono i nostri cantastorie. Abbiamo detto che è appena caduto il muro e con lui il più importante partner commerciale del paese baltico, l’Unione Sovietica. L’economia subisce una tremenda battuta d’arresto. Il tasso di disoccupazione arriva a toccare il 17% della forza lavoro e il prodotto interno crolla di quasi 40 punti percentuali tra il ’90 e il ’93. L’economia è centralizzata e la forza lavoro è fortemente protetta e sindacalizzata.
Facciamo ora un salto di 10 anni e senza cambiare coordinate geografiche ci troviamo in uno dei paesi più competitivi del mondo, in cui si è riusciti a coniugare una crescita media del Pil di oltre il 3.5% annuo tra il 1997 e il 2007 ad una forte attenzione agli impatti ambientali che una crescita così sostenuta può comportare: l’Environmental Performance index elaborato dall’Università di Yale posiziona la Finlandia al 4 posto.
Cosa è successo in questi 10 anni? I politici finlandesi hanno seguito le ricette dell’ortodossia neoliberista tanto in voga negli anni ’90 (liberalizzazione del mercato del lavoro, decentramento della contrattazione, generalizzato taglio della spesa pubblica in particolare quella destinata alla protezione sociale)? Per niente. I policy makers finlandesi hanno deciso di andare controcorrente: hanno preferito adottare una ben focalizzata politica industriale aumentando gli investimenti in R&S e in formazione, specialmente a livello universitario, compensando così i costi in termini di disoccupazione-tuttora piuttosto elevata-con i benefici generati da tassi di crescita sostenuti, consentendo di mantenere un elevato livello di protezione e tutele sociali per le fasce deboli. Le statistiche dell’Istituto KELA (un’istituzione pubblica in carico di erogare diverse tipologie di sussidi a diverse categorie di utenti) ci confermano infatti che, in corrispondenza del periodo di maggiore affanno economico, gli aiuti pubblici agli studenti universitari hanno raggiunto un picco.
Questa storia palesa il potente effetto anticiclico della spesa per istruzione. Tra i fattori strategici che sospingono la crescita di lungo periodo dell’economia vi sono senz’altro la formazione e le politiche per la ricerca e l’innovazione. In particolare le famiglie più colpite dalla crisi possono incontrare difficoltà a finanziare l’investimento in quel tipo di capitale umano che gli economisti chiamano generale (istruzione universitaria), ovvero slegato dalle specificità tecnologiche ed organizzative di una data impresa ma più adattabile a nuovi contesti Una vasta letteratura economica mostra come gli investimenti in capitale umano generale e universitario, aumentando le capacità di apprendimento, possano favorire l’adozione di nuove tecnologie e, al contempo, ridurre il rischio di disoccupazione dovuta a skill mismatches (ovvero un cattivo incontro tra qualifiche richieste dalle imprese e quelle offerte dalla forza lavoro).
L’opportunità di sostenere l’accumulazione di capitale umano generale durante le fasi di recessione sembra dunque costituire un pilastro di quelle politiche strutturali necessarie a mantenere o ad incrementare le capacità innovative di un sistema .
Sbilanciamoci.info, 22 novembre 2009