Il Partito Democratico sta crescendo. Nei sondaggi, perlomeno. Al contrario dell’inizio del 2009, quando assegnavano al Pd circa il 23%. Il che spinse Veltroni a dimettersi anzitempo, in febbraio.
Da un paio di mesi, invece, si assiste a una risalita, anche rispetto al risultato delle elezioni europee di giugno (26% dei voti validi). I sondaggi, al proposito, mostrano oscillazioni ancora significative. L’Ispo di Renato Mannheimer situa il Pd intorno al 28%. Come Euromedia, diretta da Alessandra Ghisleri, l’istituto di fiducia di Berlusconi. L’Ipsos di Nando Pagnoncelli, invece, stima il Pd oltre il 30%. Secondo il politologo Paolo Natale (su Europa), avrebbe superato la soglia del 31%. Come spiegare una crescita così continua (perlomeno nei sondaggi)?
1. Anzitutto, con l’effetto della stagione congressuale. Lunga e contorta, come abbiamo rilevato – polemicamente – prima dell’estate. Però è servita a strutturare un partito che prima non c’era. La fase dedicata agli iscritti ha, appunto, restituito il Pd agli iscritti. E gli iscritti al Pd. Ha, inoltre, attribuito un ruolo agli apparati locali e centrali. Nel bene e nel male: si è ricostruita, in qualche misura, l’organizzazione di partito. Le primarie, invece, hanno confermato la domanda di partecipazione che anima gli elettori del centrosinistra. Vi hanno partecipato circa tre milioni di persone. Tante. Questa mobilitazione ampia, durata mesi, ha fornito visibilità a un partito a lungo “latente”. Ne ha risvegliato gli elettori “latenti”.
2. Poi, oggi il Pd dispone di una leadership legittimata dal voto degli iscritti e degli elettori. Dopo un confronto vero, fra candidati che si sono sfidati senza esclusione di colpi. Questa divisione, lamentata da molti, ha dato l’idea di una competizione aperta che, in passato, non c’era mai stata. Nel 2005 e nel 2007 le primarie avevano “plebiscitato” un candidato pre-stabilito. Certo, Bersani deve dimostrare di essere capace di sottrarsi al condizionamento dei “soliti noti”. Ma dispone di un’investitura ampia. Accompagnata da un grado di fiducia elevatissimo presso gli elettori (non solo del Pd). Favorito dall’immagine di competenza e concretezza che sta trasmettendo. Prima di lui, Franceschini aveva guidato il partito in condizioni di emergenza. Erede di un leader dimissionario, era apparso – necessariamente – un segretario provvisorio e di passaggio. Difficile, per il Pd, non essere percepito, a sua volta, come un partito provvisorio e di passaggio. Oggi il Pd non è divenuto un “partito personale”, ma è certamente meno impersonale di prima. E la sospensione delle ostilità interne, la stessa uscita di Rutelli, ne hanno rafforzato l’immagine di coesione e unità.
3. Un ulteriore motivo della risalita del Pd, nelle stime elettorali, è riconducibile all’asfissia delle formazioni di sinistra, ma soprattutto al parallelo calo dell’Idv. Che riflette un certo declino dell’immagine (e della visibilità mediatica) del suo leader, Di Pietro. D’altronde, l’Idv è un partito personale. Fino a ieri: Lista Di Pietro. Lo stesso dualismo con De Magistris ne mina l’identità. Tuttavia, conta anche il ritorno di una domanda di opposizione “politica” più che espressiva. Partitica più che personale.
4. D’altronde, siamo entrati in una fase di campagna elettorale. Non tanto per le minacce di voto politico anticipato. (Non se ne vedono le condizioni). Ma perché sono prossime le elezioni regionali. Le quali avranno, assai più che le europee, un significato politico nazionale, oltre che territoriale. Per gli elettori e per i partiti. Lo schema della competizione regionale, d’altra parte, è “maggioritario” (e “presidenzialista”). E il risultato del voto avrà effetti molto più diretti sulla realtà politica e sulla vita delle persone, rispetto alle europee. Per cui, presso gli elettori, la domanda di “vincere” e di governare è destinata a prevalere sulla voglia di fare opposizione e sull’indignazione.
5. Ancora: la ripresa del Pd riflette quella del Pdl. Che i sondaggi stimano oltre il 38%. Nonostante la fiducia nel leader-premier non sia cresciuta, ma semmai calata, dopo le elezioni europee. Tuttavia, la figura di Berlusconi, in questa fase, ha ulteriormente polarizzato la meccanica del sistema partitico. Anzi: l’ha bipartizzata. L’identificazione tra Berlusconi e il Pdl – insieme alla centralità della questione giustizia – ha ridotto la visibilità della Lega. Invischiata nella discussione sulla spartizione delle candidature in vista delle prossime elezioni regionali. Definita su basi rigidamente nazionali. E personali: attraverso il dialogo diretto e personale fra Berlusconi e Bossi. Ebbene: anche la Lega, come l’Idv, appare in lieve flessione, nei sondaggi. Perché l’asse della politica nazionale si è spostato sul Pdl di Berlusconi. E valorizza, di riflesso, il Pd.
Resta il problema di fondo. Il Pd è ancora lontano dal Pdl: 7-8 punti percentuali. Il bacino elettorale a cui si rivolge, a sinistra, si è ridotto. Il suo alleato più stretto, l’Idv, è divenuto un competitor, a livello nazionale. Mentre sul territorio è un alleato debole, perché non ha radici. Per cui dovrà riesaminare il tema delle alleanze, guardando, necessariamente, al centro. All’Udc, più che a Rutelli (la cui uscita non sembra avere scalfito, per ora, l’elettorato del Pd né quello dell’Udc). Soprattutto, però, il Pd dovrà chiarire meglio il proprio progetto. La propria offerta politica. Un ambito ancora nebuloso. Non può restare a lungo così. Né può immaginare di affidare la propria identità al solo leader. Inseguendo il Pdl di Berlusconi sul suo terreno (mediatico). Per tornare ad essere un’opposizione credibile e possibile. Capace di raccogliere il voto di un terzo degli elettori. E di attrarre altri partiti, intorno a sé. Senza divenire ostaggio di alleanze tanto larghe quanto incoerenti. Il Pd: non può accontentarsi di rappresentare il “male minore”.
La Repubblica 22.11.09