Al vertice Fao il Papa ha tenuto a sottolineare che la fame nel mondo non deriva, né deriverà in futuro, dall’eccesso della popolazione rispetto alle risorse alimentari potenzialmente disponibili. Il problema è come le risorse vengono organizzate e distribuite. Vanno ripensate le sovvenzioni distorsive a chi produce il superfluo, limitate le speculazioni, favorito l’accesso ai mercati mondiali delle produzioni dei paesi più poveri.
Il settore agricolo-alimentare, come e più di altri, mette alla prova la capacità del mondo di godere i benefici dell’economia di mercato globale, governandola con regole opportune. Non si può andare «contro i mercati» senza finire nella giungla di un litigio protezionista il cui costo grava soprattutto sui più deboli. Né si può lasciare i mercati senza regole e interventi di coordinamento, che li aiutino a svilupparsi conformemente alle diverse esigenze di paesi che hanno differenti gradi di sviluppo, modelli di consumo e possibilità produttive.
E’ triste che il vertice non abbia visto un aumento impegnativo degli stanziamenti contro la fame. Eppure, almeno nel lungo periodo, il problema non è tanto quello della quantità di fondi stanziati dai Paesi ricchi, quanto quello della qualità della cooperazione globale. Questo è vero, più in generale, per gli aiuti allo sviluppo che, come suggerisce il terzo dei «Cinque principi di Roma», devono curare la fame anche indirettamente, eliminando le «cause di fondo della povertà». Gli aiuti allo sviluppo, pur crescendo, non raggiungono ancora un terzo dell’1% del Pil dei Paesi donatori. Da parte di alcuni Paesi, fra i quali il nostro e gli Usa, sono nettamente inferiori. In un periodo di tumultuosa trasformazione dell’economia mondiale occorrerebbe di più. Perché la trasformazione significa, inevitabilmente, rapidi arricchimenti e, insieme, rapidi impoverimenti, di regioni, Paesi e, al loro interno, gruppi sociali. Gli aiuti sono un modo per ridistribuire il reddito a livello internazionale. È probabile che, anche a livello nazionale, e anche all’interno dei Paesi ricchi, vada riscoperta l’importanza degli interventi ridistributivi, che oggi godono di cattiva fama per i modi nefasti con cui sono spesso stati realizzati.
Tutto ciò richiede cooperazione e un certo grado di concordia politica. Richiede regole globali e istituzioni internazionali forti e indipendenti dalle contingenze delle politiche nazionali e delle mutevoli relazioni internazionali. D’altra parte il «buon governo», del mondo e dei Paesi che lo compongono, è una condizione non solo per re-distribuire bene ma anche per produrre di più. Se è vero, come ha detto Benedetto XVI, che ci sarebbe da mangiare per tutti, non dobbiamo scordare, andando oltre lo specifico del problema alimentare, che per assicurare redditi pro capite adeguati in tutto il mondo, in decenni in cui ancora la popolazione cresce rapidamente, la produttività deve continuare a crescere: la re-distribuzione non funziona in un mondo dove rallenta la produzione.
Ma per assicurare un livello elevato e sostenibile di crescita economica globale serve lo stesso tipo di cooperazione e lo stesso dominio delle buone regole che sono indispensabili per re-distribuire il reddito e aiutare i più deboli. Oggi, per esempio, serve un coordinamento mondiale che favorisca, per qualche tempo, il contenimento della spesa e della crescita delle economie più avanzate insieme a un’accelerazione dei Paesi emergenti, che eviti l’ingolfamento dei mercati delle principali materie prime, che regoli il consumo di energia, che contenga la propensione di alcuni a consumare e quella di altri a risparmiare, pur convogliando in modo fluido e sicuro, tramite mercati finanziari efficienti e stabili, i fondi di chi spende meno del suo prodotto verso chi, temporaneamente, fa il contrario.
La fame è un aspetto tremendo del disordine di un mondo che non sa governarsi e cresce in modo diseguale e instabile. La crisi che stiamo attraversando rischia di peggiorare le cose se riduce il grado di integrazione dell’economia globale, se suscita gli egoismi e incoraggia ciascuno a chiudersi nei suoi confini oscillando fra protezionismo e concorrenza furbesca. Ma la crisi è anche l’occasione per fare il contrario: rinsaldare la cooperazione fra chi ha capito meglio che stiamo tutti sulla stessa barca, darsi regole comuni e rispettate per i grandi mercati globali, rafforzare le agenzie e le istituzioni internazionali. Far funzionare forme di «autorità sopranazionale» è insieme un’utopia, un segno di profondo realismo e il modo per tentare davvero di sradicare la fame.
La Stampa, 17 novembre 2009