Il governo fa cassa con i beni confiscati alla mafia. Un emendamento alla Finanziaria prevede che possano essere venduti gli immobili di cui non sia effettuata la destinazione entro i novanta giorni imposti dalla legge. Ma complessità delle procedure e carenza di risorse finanziarie per la ristrutturazione rendono molto difficile rispettare questi termini. Dunque, la norma abolisce di fatto l’uso sociale dei beni confiscati e ne impedisce la restituzione alle collettività. Anzi, rischia di restituirli alle organizzazioni criminali, già pronte a riacquistarli dallo Stato.
La settimana scorsa il Senato ha approvato un emendamento alla Finanziaria che consente la vendita dei beni confiscati alle mafie. Don Ciotti ha subito lanciato un appello a tutte le forze politiche perché la proposta, “che rischia di tradursi in un ulteriore regalo alle mafie, venga abolita nel passaggio alla Camera”.
IMPOVERIRE LE MAFIE ATTRAVERSO LA CONFISCA
Impoverire le mafie attraverso la confisca dei loro patrimoni è una strategia che aveva già capito bene più di venti anni fa, Pio La Torre, parlamentare ucciso a Palermo nel 1982. Non a caso, la legge che introduce la confisca dei beni mafiosi porta il suo nome, insieme a quello dell’allora ministro dell’Interno, Virginio Rognoni. (1)
Successivamente, le norme introdotte nel 1996, con la legge 109 di iniziativa popolare, sostenuta dalla raccolta di oltre un milione di firme, e nel 2007 con la Finanziaria, prevedono la destinazione a finalità istituzionali o sociali dei beni confiscati.
L’utilizzo a fini sociali di tali patrimoni ha un valore rilevante e insostituibile: in primo luogo di riaffermazione dell’autorità dello Stato, che restituisce alle comunità locali i beni illecitamente sottratti dalle organizzazioni criminali. E in secondo luogo di promozione di iniziative sociali (educative, culturali, di lotta all’emarginazione, di sostegno alla legalità, eccetera) volte a ricostruire parte di quel tessuto sociale depauperato dalla criminalità.
CHE COSA PREVEDONO LE NORME IN VIGORE
La legge attuale prevede che i beni e le aziende dei quali sia stata accertata la proprietà da parte di soggetti appartenenti a organizzazioni mafiose vengano confiscati, cioè sottratti definitivamente ai proprietari, e possano essere destinati a finalità di carattere sociale.
Ciò si realizza attraverso l’assegnazione dei beni immobili confiscati a comuni, province, regioni, associazioni di volontariato, cooperative sociali, e cos via per realizzare scuole, comunità di recupero, case per anziani, centri per rifugiati politici, e altro ancora. Frequenti sono anche i casi di terreni destinati a cooperative sociali di giovani, che hanno così modo di avviare una attività lavorativa, di produzione di prodotti agricoli, in territori dove la prossimità fra disoccupazione e criminalità è fattore di rischio per le giovani generazioni.
I beni mobili e le aziende confiscate vengono per lo più trasformati in denaro contante e il ricavato viene versato nel Fondo unico per la giustizia.
CHE COSA È STATO FATTO FINO AD OGGI
Grazie all’attività del commissario straordinario per la gestione e la destinazione dei beni confiscati alla mafia, reintrodotto dal governo Prodi nel 2007 dopo che il governo Berlusconi l’aveva soppresso nel 2003, è possibile oggi avere un quadro sufficientemente chiaro delle dimensioni del fenomeno. I dati sono aggiornati al 30 giugno 2009.
Il valore economico dei beni confiscati è molto elevato. Complessivamente, si stima che siano stati destinati beni per un valore di 725 milioni di euro, di cui ben 225 negli ultimi diciotto mesi, grazie all’attività del commissario straordinario, e solo 500 nei dodici anni precedenti.
I beni immobili confiscati sono 8.933, di cui ben 46 per cento in Sicilia, 15 per cento in Campania e 15 per cento in Calabria. Di tutti i beni immobili confiscati, il 60 per cento ha già trovato una destinazione: la maggior parte è stata consegnata agli enti locali per finalità sociali, il restante è stato mantenuto allo Stato per fini istituzionali.
Le aziende confiscate alla criminalità sono 1.185, di cui 38 per cento in Sicilia, 19 per cento in Campania e 14 per cento in Lombardia. Operano principalmente nel settore delle costruzioni, della ristorazione e del turismo. Di tutte le aziende confiscate, solo il 33 per cento ha trovato una destinazione: attraverso la vendita o l’affitto e, più frequentemente, attraverso la liquidazione (una azienda su tre risulta infatti già in liquidazione prima della confisca definitiva).
I dati indicano la difficoltà a procedere alladestinazione dei beni confiscati, difficoltà particolarmente rilevanti fino al 2007, mentre in epoca successiva l’azione di coordinamento del commissario straordinario di governo ha notevolmente accelerato laconsegna agli enti locali degli immobili confiscati (vedi grafico).I problemi sono, ancora oggi, legati alla complessità delle procedure(per esempio, inagibilità, ipoteche o procedure giudiziarie in corso, occupazioni, contenziosi causati dalle impugnazioni delle ordinanze di sgombero) e alla carenza di risorse finanziarie per la ristrutturazione dei beni. Al superamento di tali ostacoli dovrebbero in primo luogo essere orientate le azioni del governo. Ma l’emendamento va nella direzione opposta.
LA NORMA INSERITA IN FINANZIARIA
L’emendamento appena approvato dal Senato prevede che possano essere venduti i beni immobili di cui non sia possibile effettuare la destinazione entro i termini previsti dalla legge, cioè entro novanta giorni dalla proposta dell’Agenzia del demanio, che possono diventare centottanta in casi particolarmente complessi.
Viste le difficoltà a portare a termine le procedure di destinazione, la norma abolisce di fatto l’uso sociale dei beni confiscati e ne impedisce la restituzione alle collettività. Anzi, la prevista vendita rischia di favorire la restituzione del patrimonio “alle organizzazioni criminali, capaci di mettere in campo ingegnosi sistemi di intermediari e prestanome e già pronte per riacquistarli, come risulta da molteplici segnali arrivati dai territori più esposti all’influenza dei clan”.
In sintesi, l’emendamento ignora, anzi penalizza, gli sforzi messi in atto negli ultimi anni per accelerare l’utilizzo a fini sociali dei beni confiscati e apre la strada alla vendita alle organizzazioni criminali dei beni a loro sottratti.
(1) La legge 13 settembre 1982, cosiddetta Rognoni–La Torre, integrando la legge 31 maggio 1965 n. 575 “Disposizioni contro la mafia”, introduce accanto alle misure di prevenzione di carattere personale quelle di carattere patrimoniale del sequestro e della confisca dei beni.
www.lavoce.info
******
SULLO STESSO TEMA
Beni confiscati all’asta, è polemica . Sì del Senato. Le associazioni: così le cosche possono ricomprarseli, di Alessandra Ziniti
PALERMO – Ad Altofonte, il paese di Mimmo Raccuglia, la caserma dei carabinieri dovrebbe sorgere in una villa di tre piani confiscata ad un altro boss, Michelangelo Camarda, ma mancano i soldi per ristrutturarla e il bene rimane inutilizzato. «Ora con la nuova legge, visto che lo Stato non ha i soldi per riutilizzarla a fini sociali, questa villa potrebbe finire all’asta e i mafiosi se la ricomprerebbero immediatamente. È una sconfitta per noi tutti», dice il sindaco Vincenzo Di Girolamo.
La possibilità di mettere all’asta i beni sottratti ai mafiosi prevista da un emendamento alla Finanziaria approvato in Senato segna un passo indietro nella strategia di lotta ai patrimoni illegali che le Procure ritengono strumento indispensabile nella lotta alla mafia. «È un vero e proprio regalo di questo governo alle cosche, oltre che una gravissima violazione della legge La Torre – dice Walter Veltroni, del Pd – Mettere in vendita i beni confiscati invece che destinarli alle attività delle istituzioni locali o di associazioni come Libera è una proposta aberrante. Accadrà che a riacquistare i beni confiscati saranno i clan attraverso prestanome e società finanziarie. Colpire le cosche nel loro patrimonio è una delle condizioni necessarie della lotta alla mafia».
E don Luigi Ciotti, fondatore di Libera che con la gestione di centinaia di beni confiscati ha creato un circuito virtuoso di economia legale, si appella alle forze politiche perché l’emendamento venga bocciato alla Camera: «Viene di fatto tradito l’impegno assunto con il milione di cittadini che nel 1996 firmarono la proposta per la legge sull’uso sociale dei beni confiscati alla mafia e la loro restituzione alla collettività. Se l’obiettivo è quello di recuperare risorse finanziarie, strumenti già ce ne sono, a partire dal “Fondo unico giustizia” alimentato con i soldi liquidi sottratti alle attività criminali, di cui una parte deve essere destinata prioritariamente ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia. Ma è un tragico errore vendere i beni correndo di fatto il rischio di restituirli alle organizzazioni criminali già pronte per riacquistarli».
Voce fuori dal coro l’associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili: «Non disapproviamo affatto che nuove norme prevedano, quando necessario, la vendita di beni confiscati alla mafia. Del resto troppe vittime che hanno fatto causa civile contro la mafia aspettano che lo Stato faccia fronte ai propri impegni per mancanza di fondi».
La Repubblica 17.11.09
******
Perdere la terra, la grande paura dei clan campi e case contano più di soldi e yacht
Da Riina a Brusca, tutti i capi hanno dovuto subire i sequestri della “roba”: la vendetta più feroce da parte dello Stato, di Attilio Bolzoni
Immobili un tempo proprietà dei padrini ospitano oggi scuole, fattorie e uffici. La rabbia dei mafiosi in carcere “Qui non si vive più ti levano pure i beni intestati a terzi”
È fatta con il grano duro di Corleone. Viene dai campi che una volta erano di Totò Riina, campi di mafia che non sono più di mafia. La pasta dello «zio» Totò si vende anche all’aeroporto di Punta Raisi, un regalo da portare agli amici lontani. Un piatto di pasta che per «quelli», gli uomini d’onore, è come uno sfregio. Il peggiore. Toglietegli tutto a un boss di Cosa Nostra ma non toglieteli la terra, condannatelo a tre ergastoli ma non levategli mai la «roba». Quella vale più della vita.
Ci sono almeno una ventina di ragazzi che dall’alba al tramonto lavorano in mezzo a una campagna magnifica che è tagliata da una strada tortuosa, la provinciale che da Corleone scende verso San Giuseppe Jato. Altro grano. Il grano dei Brusca. Del vecchio Bernardo che non c’è più e dei suoi figli che sono chiusi in carcere o nascosti come sorci. Grano di cooperativa. Grano buono e pulito. Fanno anche l’olio a San Giuseppe Jato. E anche a Castelvetrano, nel frantoio che era di Matteo Messina Denaro e prima ancora di suo padre Ciccio. Fanno i pomodorini nelle tenute dei Geraci di Partinico. Fanno il vino con l’uva dei Capizzi di Monreale. Tutta la terra hanno portato via a mezza Cupola, quella che era padrona di tanto e di troppo nella Sicilia occidentale. E l’hanno portata via proprio a quei mafiosi che chiamavano con disprezzo e timore i «viddani», i contadini, quelli che in quella terra erano cresciuti prima di conquistare Palermo. È stata la vendetta più feroce. Più degli ergastoli. Più dei pentiti.
Lo mettevano nel conto – dopo le stragi, dopo tanti delitti – di perdere una barca o una società o una valigia piena di dollari, ma la terra la consideravano cosa loro per sempre. Per l’eternità. È come se avessero strappato il cuore a tutti. Terre e case. E anche a Totò Riina hanno preso terre e case. Sono diventate scuole, fattorie sono diventati depositi, centri di cultura, uffici comunali. Ogni 100 sequestri mafiosi – negli ultimi 25 anni in Italia – ci sono state in media 10 confische. Quasi 7 mila. Più di mille in Sicilia, quasi mille in Calabria, poi c’è la Campania. E al quarto posto la Lombardia, segno che intorno a Milano mafia e camorra e ‘ndrangheta si erano (e si sono) sistemate bene. Qualcuno ha perso l’impianto di calcestruzzo, qualcun altro un albergo, Raffaele Cutolo il «Castello» a Ottaviano (è la sede del parco Nazionale del Vesuvio), il calabrese Giuseppe Morabito detto «U’ tiradritto’» la bella villa di Siderno (è un commissariato di Pubblica sicurezza), un imprenditore palermitano ha perso 64 palazzi. Più di duemila appartamenti e centocinque box. Meglio un secolo di carcere al 41 bis. Per loro, meglio un colpo di pistola in mezzo agli occhi.
Tutto si «aggiusta» dentro Cosa Nostra. Si perdonano pure i delitti in famiglia, si finge di non ricordare l’amico che è stato ucciso o il fratello che è stato tradito. Gli affari sono affari. Ma quando si perdono i «piccioli» o – peggio – la «proprietà», è difficile dimenticare. E nessuno di loro dimentica.
Uno dei boss più duri della Cupola, Nino Rotolo, ricordava appena un paio di anni fa a un giovane rampollo dei clan nemici, gli Inzerillo: «Ti voglio dire che non c’è differenza fra voi che avete i morti e noi che abbiamo la gente in galera per sempre, se vogliamo però una differenza c’è: a voi sono rimasti i beni e a noi invece li hanno levati tutti…».
Era meno doloroso il morto in casa che il bene tolto, trovato e poi prelevato dallo Stato. Così «ragiona» la mafia siciliana. E così – anno dopo anno – è stata costretta a nascondersi, a difendersi, a «occultare» le proprie ricchezze. A volte c’è riuscita, a volte non ce l’ha fatta.
Un altro mafioso della vecchia guardia, Francesco Inzerillo, rinchiuso in un carcere – e intercettato con una microspia – raccomandava ai suoi due nipoti Giovanni e Giuseppe che erano andati a colloquio con lui: «Ve ne dovete andare, ma non dalla Sicilia o dall’Italia, ve ne dovete andare dall’Europa. Qui non si può più vivere liberamente e moralmente. Anche i beni che sono intestati a terze persone, anche se hai 80 anni te li tolgono solo perché sei amico di, conoscente di. E cosa più brutta della confisca dei beni al mondo non c’è e non c’è mai stata. Ve ne dovete andare».
La Repubblica 17.11.09