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“Se si decide di non decidere”, di Vittorio Emanuele Parsi

Decidere di non decidere è, in politica, una prassi antica e consolidata. Ma non si era mai visto decidere in anticipo che nessuna decisione vincolante possa essere adottata nemmeno in un appuntamento ancora da venire eppure da tempo programmato.

Tanto più su un problema di cui, ogni giorno, si continua a ribadire la gravità e l’urgenza. Altro che «politica dell’annuncio». Qui siamo al paradosso per cui l’unico modo per far rimanere una questione all’ordine del giorno dell’agenda dei vertici internazionali è quello di rassicurare i recalcitranti che nessuna pressione eccessiva sarà esercitata nei loro confronti. Poco importa che la prossima conferenza Onu sul clima rischi così di diventare una versione globale di «Che tempo che fa», alla quale tanto varrebbe inviare Fabio Fazio o, meglio ancora, Luciana Littizzetto, che almeno è refrattaria alla retorica e generalmente non le manda a dire. La sensazione che i vertici, mentre si moltiplicano e si affollano nei partecipanti, siano sempre più inconcludenti quando non del tutto inutili si rafforza ogni giorno di più. Neppure l’effetto vetrina sembra riuscire a salvare quel barlume di effettività che perlomeno i «padroni di casa», gli organizzatori, cercano di preservare. Privati persino dell’aspetto rituale, in nome del quale volizioni già concordate venivano proclamate solennemente in qualche capitale mondiale, l’utilità di questi complessi meeting sembra svanire del tutto. Alla fin fine, verrebbe da osservare, gli unici appuntamenti che mantengono le promesse sono quelli dichiaratamente celebrativi convocati per rievocare qualche grande traguardo raggiunto in passato: il D-Day o la caduta del Muro, in cui lo sguardo si volge al passato, come in una rimpatriata familiare.

Ma se la consapevolezza che questi eventi contano poco in termini decisionali si va diffondendo da tempo non tra i soliti contestatori fricchettoni e no global, ma anche nell’opinione pubblica meno smaliziata e persino tra gli stessi addetti ai lavori, perché se ne continuano a fare? La risposta è, tutto sommato semplice. I vertici, le conferenze, i summit, i G8 e i G20 svolgono innanzitutto la funzione di fornire una base di legittimità all’agenda della politica mondiale. Una qualunque questione scala la vetta dell’attenzione politica a mano a mano che compare e ricorre negli ordini del giorno dei summit e dei vertici. Ciò che può apparire una pura e irritante perdita di tempo, in realtà permette di coalizzare intorno a un problema quel consenso politico necessario a far sì che le limitate risorse a disposizione possano essere fatte convergere per la sua soluzione. Se non se ne fosse «parlato» (e poco più, in realtà) da Rio de Janeiro a Tokyo a Copenaghen, il mese prossimo, potreste star certi che nessuna delle poche eppure dolorose decisioni in campo di salvaguardia ambientale fin qui adottate avrebbe neppure visto la luce.

Summit sempre più frequenti, quindi, che si moltiplicano su una lista crescente di argomenti in competizione tra loro nella caccia della nostra attenzione. E summit sempre più affollati, non tanto perché molte delle questioni cruciali per il futuro del pianeta vedono il genere umano come beneficiario «in solido» delle eventuali soluzioni (oltre che come vittima collettiva dell’inerzia): questo in fondo è sempre stato vero anche quando le sorti del mondo le decidevano in due, sovietici e americani. In fondo l’espressione «equilibrio del terrore» (nucleare) conteneva due informazioni: che l’equilibrio tra Usa e Urss poggiava su un incubo di distruzione nucleare che avrebbe riguardato l’intera umanità, e non solo i russi e gli americani. No. Il punto di novità è che oggi, su un mare montante di questioni, occorre un consenso allargato per qualunque ipotesi di decisione, perché senza la collaborazione attiva e volontaria di porzioni crescenti di mondo non è possibile fare nulla su quasi nessuna questione di portata davvero globale. I summit, i vertici, le conferenze si sono così trasformati in momenti assembleari, di emersione dei problemi, di elaborazione «retorica» della loro gravità e di ricerca e costruzione del consenso per le decisioni che altrove saranno eventualmente adottate. Altrove, ma dove? – verrebbe da osservare. In riunioni bilaterali, spesso, o comunque molto più ristrette, che precedono e seguono quei vertici la cui funzione è anche quella di ricordarci che, dopotutto, siamo sulla stessa barca e che di fronte alle sfide del cambiamento climatico o della tutela dell’ambiente non esistono vie individuali di salvezza, e neppure di coppia, G2 o non G2.
La Stampa 16.11.09

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Dalle promesse alla realtà , di VITTORIO ZUCCONI
“Avrebbe potuto prendere il toro dell’inquinamento globale per le corna a Copenaghen e invece lo ha scansato” fremono contro Obama gli ambientalisti del Wwf, aggiunti da ieri alla sempre più lunga lista internazionale dei delusi dal carismatico “profeta del cambiamento” che in 10 mesi di presidenza sembra avere cambiato poco.

La sua rinuncia a fare del vertice Onu in Danimarca sull’ambiente, in dicembre, la affermazione definitiva del nuovo corso americano sul clima, e la notizia che il presidente oggi occupato a parlare di vile moneta e di mercati con i cinesi, neppure si scomoderà a parteciparvi visto che nessun trattato concreto ne uscirà oltre i soliti “impegni politici” sta seminando lo sconforto tra coloro che avevano visto in lui l’attore di quella svolta ambientalista che George Bush aveva scaricato. Se non è proprio lo sprezzante rifiuto del primo accordo di Kyoto che George “W” aveva pronunciato morto nel 2001 per rassicurare subito i poteri economici e industriali americani che lo avevano appoggiato, l’ammissione che anche questo nuovo tentativo di affrontare appunto “per le corna” il toro del degrado ambientale planetario è stato accantonato, sembra la “piccola Kyoto” di Barack Hussein Obama.

Ma una differenza fondamentale, anche se ancora non tradotta in azione politica e diplomatica internazionale, fra la ritirata di Kyoto ordinata da Bush e il “time out” di Copenhagen voluto da Obama esiste e può consolare i delusi del Wwf e gli ambientalisti che si attendevano dalla Danimarca molto più di un “accordo politico vincolante” come lo ha chiamato il premier danese Rasmussen, dove il sostantivo, “politico”, svuota l’aggettivo “vincolante”. Il Bush dei primi quattro anni era ideologicamente scettico, se non proprio indifferente, all’ambientalismo, alla globalizzazione della risposta, alla cultura dell'”effetto serra” e del surriscaldamento della Terra provocato dall’attività umana che lui, e i suoi suggeritori politici, consideravano, appunto, come un’ideologia, non a caso incarnata dal rivale che aveva (forse) sconfitto alle elezioni del 2000, Al Gore.
Il problema, e l’atteggiamento di Obama, è tutt’altro. Ha la stessa radice di tutte le “delusioni” che la sua politica su Guantanamo, le guerre in Iraq e in Afghanistan, la sfida del terrorismo transnazionale, la riforma della sanità, le grandi questioni etiche e pratiche come l’aborto, le unioni fra persone dello stesso sesso, i “gay” nelle forze armate, stanno sollevando nel “movimento” che lo proiettò alla Casa Bianca. Obama vorrebbe, ma non riesce.
Bush non voleva e riuscì a non fare, che è sempre cosa assai più facile.

Il presidente in carica sta, giorno dopo giorno, scoprendo, o ammettendo dopo la scintillante retorica della sua campagna elettorale, quello che tutti i suoi predecessori avevano scoperto, che cioè tra il promettere e il mantenere esiste, anche per la persona che si definisce come “la più potente” del mondo, un abisso. E che questo abisso pratico appare tanto più largo e profondo quanto più grandi erano le speranze suscitate e le promesse fatte. Si può essere, come non abbiamo ragione di dubitare che lui sia, convinti ambientalisti, ma questa convinzione non si traduce necessariamente in un trattato che imponga – come Copenhagen, molto più del vago accordo di Kyoto avrebbero fatto – alle nazioni sviluppate, alle nuove potenze emergenti come India, Cina o Brasile, all’Africa che insegue arrancando, alla parte dell’Asia ancora arretrata, di rispettare meccanismi severi e minuziosi di comportamento.

Si può, e sicuramente lui lo vorrebbe, cercare di ripulire le stalle di Guantanamo, di chiudere l’insensatezza irakena, di trovare la chiave del rompicapo afghano, di dare una copertura sanitaria agli esclusi per censo o per cattiva salute. Ma il “toro” delle opposizioni, degli interessi contrari, degli opportunismi politici, diciamo pure della realtà, non si lascia infilzare facilmente.

Dalla radicalità delle parole alla vischiosità delle cose sta il passaggio che Obama non riesce ancora a compiere, non essendo comunque lui mai stato quel rivoluzionario che soltanto la propaganda avversaria, e le farneticazione tele e radiofoniche di chi lo detesta anche per il colore della pelle senza naturalmente mai ammetterlo, dipingevano. Per questo, come nel caso della “rivoluzione ambientale” interrotta con la rinuncia, per ora, al trattato di Copenhagen che non sarà abbandonato ma ripreso e spinto da lui, Obama tergiversa, negozia, media, attende, scansa il toro, nella speranza di fiaccarlo. Purtroppo per lui, il tempo passa, le amarezze aumentano, nuove elezioni incombono e il torero rischia di restare solo nell’arena delle delusioni.
La Repubblica 16.11.09