Mentre ieri l’Assemblea del Pd proclamava Pierluigi Bersani segretario del partito, Rutelli se n’era già andato, insieme ad altri ex-democratici. Anche se non è chiaro dove approderanno. Nell’orbita dell’Udc, probabilmente. Ne è convinto Casini, che ha preconizzato, per il proprio partito, il raddoppio della base elettorale. Anche se i sondaggi, per ora, non hanno rilevato variazioni nelle stime di voto dell’Udc e del Pd. Il quale appare, anzi, in crescita.
L’Udc diverrebbe, in questo caso, un partito diverso. D’altronde, è una fase incerta, che coinvolge non solo Rutelli e Casini, il Pd e l’Udc, ma il sistema politico italiano nell’insieme. Scosso da tensioni trasversali agli schieramenti e ai partiti. Basta rammentare la turbolenza che investe, in questa fase, l’Idv, dove la leadership di Antonio Di Pietro subisce la concorrenza di Luigi De Magistris. Anche nell’altro versante, però, si colgono alcune crepe. Nel Pdl cresce l’insofferenza di alcuni leader nei confronti del protagonismo e delle scelte di Tremonti. E, parallelamente, cresce l’insofferenza di Tremonti verso le pretese degli altri ministri di condizionarlo – e di ridimensionarlo. Avvisaglie – per alcuni versi – della “guerra di successione” (preventiva) a Berlusconi. Perfino nel regno monocratico della Lega emerge una timida ricerca di autonomia personale rispetto alla leadership di Bossi.
Questi casi, profondamente diversi, riflettono l’equilibrio instabile del sistema politico italiano, dove è difficile – quasi impossibile – distinguere le persone dai partiti e i partiti dalle persone.
Rutelli, per ora, è un leader senza partito. Alla ricerca di un partito. Senza movimenti, fondazioni, comitati oppure liste che lo sostengano. Mosso da intenti che meritano rispetto. Ma vaghi. L’accusa rivolta al Pd, di essere il Pds senza la “S”, evoca un rischio concreto. Tuttavia, il richiamo a un soggetto politico riformista e moderato è un po’ generico. Tutti in Italia – salvo la sinistra radicale ormai fuori gioco – si definiscono tali. Riformisti e moderati. Inoltre, pare difficile che il riferimento ai valori gli permetta di attrarre gli elettori cattolici del Pd. I quali, peraltro, non sono troppo sensibili al richiamo della Chiesa, su questi temi.
Anche l’Udc, a cui Rutelli guarda con interesse (ricambiato), è un “partito personalizzato”. Riassunto, a livello nazionale, da Casini. Altri leader, come Tabacci, godono di ampio credito, al di là dei confini del partito. Ma, per questo, non lo rappresentano e non lo identificano. D’altronde, il distacco dell’Udc dal centrodestra nasce dal rifiuto di Casini di confluire nel Pdl nel dicembre del 2007. Per non recitare, in eterno, la parte della “giovane promessa” (felice formula di Edmondo Berselli). Per non sparire, insieme all’Udc, nel PMM, il Partito Mediatico di Massa. Casini, allora, preferì spostarsi al centro. Cioè: alla periferia del sistema bipolare. (Aiutato da Bossi e dalla Lega). Mentre Fini si “ritirò” a Montecitorio. Visto che il gruppo dirigente di An, in larga maggioranza, non avrebbe accettato di sfidare il Cavaliere. Fini. Altro leader senza partito. Interpreta il ruolo di presidente della Camera da protagonista politico.
L’Udc, tuttavia, non è un “partito personale” (secondo la definizione di Mauro Calise). Non è il Pdl e neppure la Lega. È una rete di gruppi personali e di interessi locali. Un arcipelago sopravvissuto alla scomparsa del continente democristiano. Casini offre loro un’immagine comune. Una regia nazionale. Il riferimento all’identità cattolica, peraltro, è importante, ma non “distintivo”. D’altronde, la Chiesa, per tutelare i propri valori e interessi, preferisce agire in proprio. Rivolgersi ai partiti maggiori e soprattutto al governo. Non alle formazioni minori. L’Udc, per questo, è un partito ” personalizzato”. Orientato dalle strategie personali del leader, ma anche da quelle dei gruppi dirigenti locali e della base elettorale. Per metà, insediata nel Centrosud. Zone di forza: Sicilia e Calabria. Per questo, l’arrivo di Rutelli ne può accrescere la visibilità. Il peso politico. Ma non i voti. Non più di tanto, comunque, fino a quando resterà in vigore questa legge elettorale – ironia della sorte: voluta dall’Udc – che premia le coalizioni e schiaccia chi sta in mezzo.
Nell’Udc crescerà , semmai, la concorrenza “personale”. D’altronde, nel Pd, Rutelli era divenuto “periferico”, dopo la sconfitta nell’elezione a sindaco di Roma, un anno e mezzo fa. E dopo la vittoria di Bersani al congresso e nelle primarie del Pd. Afflitto anch’esso dal dualismo fra partito e persone. Ma in senso contrario rispetto agli altri casi. Perché il Pd tende ad apparire oggi una sorta di “partito impersonale”. Il che non è un male, se ci si riferisce a un partito non ridotto a una sola persona; dove il peso organizzativo e associativo è più importante del leader. Ma la definizione suggerisce dell’altro. Un’identità politica pallida. Oltre al sospetto che il potere effettivo di Bersani – per quanto legittimato dal voto degli iscritti e dei simpatizzanti – sia condizionato, nel retroscena, dai soliti noti.
La politica personale – o impersonale – rende, dunque, vulnerabile soprattutto il centro-sinistra. Nell’altro versante, il rapporto fra partito e persona è diretto. Berlusconi, in particolare, non è solo il leader unico del Pdl. Ma “impersona” l’ideologia condivisa dagli elettori. Dove pubblico e privato si confondono, nell’esercizio e nella “messa in scena del potere”, attraverso i media, che egli stesso controlla. Nell’Idv, al contrario, Di Pietro, oscurato da mesi in tv (e non solo per volontà della destra), ha perso consenso e fiducia popolare. Mentre la concorrenza di De Magistris sta logorando le fondamenta (personali) del partito.
Questa seconda Repubblica. Ridotta a un catalogo di combinazioni tra partiti e persone. Partiti personali, personalizzati e impersonali. Accanto a persone senza partito e in cerca di partito. Evoca una democrazia povera. (Povera democrazia!). Di idee e di identità. Di passione e partecipazione. Speriamo che passi presto.
La Repubblica 08.11.09