Le emissioni vanno ridotte se non vogliamo il surriscaldamento del pianeta e le sue disastrose conseguenze. Un obiettivo ambizioso consente una decisa azione immediata, offre una metrica precisa per valutare se quelle azioni sono efficaci e mobilita la società internazionale. Su un piatto della bilancia ci sono i costi molto alti che non vogliamo o non possiamo sostenere, ma sull’altro c’è la consapevolezza che l’assenza di investimenti ingenti porta il nostro pianeta a uno stato di stress non più sostenibile. E allora? Solo la politica ci può salvare.
L’obiettivo di mantenere entro i 2°C l’aumento della temperatura terrestre (rispetto all’età preindustriale) causato dall’effetto serra costituisce ancor oggi il punto di riferimento delle analisi e dei documenti ufficiali che trattano delle conseguenze, dei costi e dei benefici delle politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici.Èanche il riferimento normalmente preso in esame nei lavori scientifici dei vari istituti di ricerca e dei singoli studiosi in giro per il mondo. Il Quarto rapporto dell’Ipcc contiene una famosa tavola che associa a possibili incrementi della temperatura corrispondenti livelli di concentrazione dei gas-serra in atmosfera e quindi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Da essa si vede che le emissioni dovrebbero essere ridotte del 50-85 per cento entro il 2050 rispetto al 2000 e che dovrebbero raggiungere il picco tra il 2000 e il 2015. Nonostante questo particolare scenario sia molto ambizioso, ancora qualche settimana fa l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), in vista dell’incontro di Copenhagen, ha deciso la diffusione anticipata di parte del World Energy Outlook 2009, nel quale viene mantenuto come riferimento di policy la stabilizzazione delle emissioni di gas clima-alteranti a 450 ppm di CO2eq, un livello di warming che i climatologici ritengono compatibile con l’aumento della temperatura media globale a +2°C. Questo riferimento è poi il pilastro su cui poggia l’intera costruzione della politica dell’energia e del clima dell’Unione europea.
MITIGAZIONE E ADATTAMENTO
Mentre però si avvicina l’appuntamento cruciale della conferenza sul clima, che inizierà il 7 dicembre prossimo e durerà dodici giorni, mentre si intensificano gli incontri tra i paesi coinvolti nel negoziato (l’ultimo appuntamento è in corso a Barcellona proprio in questi giorni), mentre si fa più intensa e specifica la discussione sugli interventi in seno all’Unione europea (anche se gli esiti non sono sempre quelli sperati), si fa più consistente la schiera di chi ritiene che la battaglia per l’obiettivo +2°C sia già persa. Questi aspetti sono stati chiariti da Carlo Carraro ed Emanuele Massetti.
Il loro contributo, che ha il merito di squarciare il velo dell’ipocrisia politica riferita all’annuncio di obiettivi futuri che appaiono forse impossibili da raggiungere, porta a una soluzione estremamente pragmatica: una risposta, per quanto complessa, può essere cercata in quell’insieme di politiche che vedono l’integrazione tra mitigazione delle cause e adattamento alle inevitabili alterazioni del clima. Ègiunto dunque il momento di cominciare a discutere sul serio non solo di politiche di mitigazione, comunque indispensabili, ma anche, e forse soprattutto, di politiche di adattamento che siano in grado di fronteggiare un incremento della temperatura più vicino ai quattro che ai due gradi.
Che questo sia necessario lo dice anzitutto la scienza. Una volta emessa, una tonnellata di CO2 resta in atmosfera per un periodo che va dai 50 ai 200 anni; se le emissioni raggiungono il picco tra 20 anni, le concentrazioni si stabilizzano in un lasso di tempo tra 100 e 300 anni, la temperatura dopo alcuni secoli, l’aumento del livello del mare in un periodo compreso tra secoli e millenni. Ciò indica che anche quando dovessimo azzerare o addirittura, come oggi si ipotizza, rendere negativa la crescita delle emissioni, le alterazioni del clima continuerebbero per un lungo periodo di tempo.
In Inghilterra, nelle ultime settimane, a tenere accesa l’attenzione su questi temi è stata una conferenza intitolata “4 Degrees and Beyond”, che si è tenuta a Oxford alla fine di settembre. Il suo obiettivo principale era presentare alcune ricerche, tra cui quelle del prestigioso Met Office Hadley Centre, che dibattono gli effetti di un incremento pari a 4°C nei prossimi cinquanta anni. È forse significativo che il sito del dipartimento britannico per l’Energia e il cambiamento climatico si chiami www.actoncopenhagen, a indicare che si tratta di una situazione da evitare, non una situazione cui adattarsi. Mentre dunque il governo britannico continua a sostenere la necessità di una politica che mantenga la temperatura al di sotto di +2°C (“British ministers are pressing for the most ambitious deal possible in order to avoid these dangerous impacts”), dall’altra finanzia progetti di ricerca che spiegano in modo esauriente quali possano essere gli effetti di un mondo a +4°C. (1)
A completare il quadro è la recente pubblicazione su Nature di un articolo in cui ventotto
scienziati di alto livello, tra cui un premio Nobel, tutti studiosi di scienze delle Terra e sostenibilità, individuano nove Planetary Boundaries, problemi significativi per i quali esiste una eccessiva pressione umana sui sistemi naturali. Per tre di questi, e cioè cambiamento climatico, perdita di biodiversità e ciclo dell’azoto, siamo già oltre il “confine” della sostenibilità. (2)
Dunque la situazione è riassumibile come segue. Da una parte, risulta chiaro che è molto improbabile, se non chiaramente impossibile, il raggiungimento dell’obiettivo così come stabilito, tra l’altro, all’Aquila durante il Major Economic Forum. Dall’altra, importanti istituzioni scientifiche sottolineano come un incremento della temperatura, potrebbe avere ripercussioni molto gravi sull’uomo e il suo ambiente. Le due visioni, apparentemente lontanissime, necessitano di essere raccordate, o quanto meno è necessario che sul tema si apra un dibattito chiarificatore.
UNA PARTITA PERSA?
Per esempio, si potrebbe cominciare a chiedersi quanto è pericoloso rinunciare a un obiettivo di lungo periodo, o sufficientemente ambizioso. Un obiettivo ambizioso fornisce forti incentivi per una decisa azione immediata, offre una metrica precisa rispetto alla quale valutare l’adeguatezza di quelle azioni, mobilita la società e promuove la partecipazione internazionale, come dimostra la manifestazione International Day of Climate Action del 24 ottobre scorso. (3)Infine stimola il progresso tecnologico.
Ci si potrebbe poi domandare se l’obiettivo di +2°C è veramente irraggiungibile. Un recente studio di Deutsche Bank Climate Change Advisors ha raccolto informazioni su circa 270 target adottati dai paesi del Mef, che rappresentano il 75 per cento delle emissioni odierne, relativi ai cambiamenti climatici, alle emissioni, alle energie rinnovabili, a obblighi per l’industria e per i vari settori. Lo studio mostra che l’adozione combinata nella forma più aggressiva di tali politiche e misure domestiche produce una riduzione delle emissioni che supera di un ammontare tra 5 e 7 gigatons di CO2eq il livello compatibile con la stabilizzazione a 450 ppm delle concentrazioni di gas-serra. (4) Secondo gli analisti di Deutsche Bank questo non significa che la partita è persa o comunque non può più essere giocata, laddove si tenga presente che la Iea ha proprio di recente indicato che fino al 60 per cento la soluzione del problema al 2020 può venire dall’efficienza energetica, sia negli usi finali che nella generazione elettrica.(5)
Naturalmente si tratta in ultima istanza di un problema di costi e di risorse finanziarie. Ma è ormai ampiamente documentato che le misure di efficienza energetica, soprattutto negli usi finali, sono in grado di generare risparmi, e non già costi, mentre molto ridotti sono i costi marginali di abbattimento associati ai miglioramenti di efficienza nella generazione elettrica. Ma questa è solo una parte dello sforzo nella mitigazione, che non tiene conto delle necessità per l’adattamento.
LA SCELTA TRAGICA
Siamo allora di fronte a una scelta tragica, per usare il linguaggio di Guido Calabresi, con in più vaste aree di incertezza. Da una parte i costi, che i paesi del mondo potrebbero dover sostenere per cercare di avvicinarsi per quanto possibile ai limiti imposti dall’Ipcc. E non aiuta in questo senso la posizione espressa da Carraro e Massetti quando suggeriscono che le risorse economiche necessarie all’adattamento dei paesi più vulnerabili debbano essere messe a disposizione dai paesi industrializzati. La proposta è piena di buon senso economico – considerando che i costi di mitigazione dei paesi industrializzati sarebbero maggiori dei costi di adattamento dei paesi in via di sviluppo, sarebbe razionale trasferire risorse economiche – ma deve essere valutata alla luce della politica concreta. Dall’altra, l’assenza di investimenti ingenti, tanto nei paesi sviluppati quanto negli altri, porta probabilmente il nostro pianeta a uno stato di stress non più sostenibile.
E allora? Solo la politica ci può salvare. Una classe dirigente che eserciti una vera leadership potrebbe trovare il modo di dare delle priorità alla propria azione di governo, anche se i ritorni non sono immediatamente spendibili sul piano elettorale. Bisognerebbe che la politica fosse davvero convinta che il cambiamento climatico rappresenta una sfida importante e che abbia il modo di conoscere in modo approfondito opinioni, analisi e scenari. L’esame crudo delle cifre è davanti a noi, ma non possiamo non cercare altre strade, per quanto difficili e tortuose possano apparire.
(1) Il 22 ottobre il ministro degli Esteri, David Miliband, e il ministro per l’Energia e i cambiamenti climatici, Ed Miliband, hanno lanciato nel Regno Unito la UK Met Office Hadley Centre’s 4 Degree World Map, una mappa che illustra alcuni dei possibili effetti in caso di aumento delle temperature medie del pianeta nella misura di 4oC al di sopra della media preindustriale. La mappa, realizzata dal Met Office Hadley Centre con finanziamenti pubblici, ha lo scopo di far comprendere quale potrebbe essere l’impatto sull’uomo di cambiamenti climatici sostanziali e quindi cosa succederebbe se non si riuscisse a concludere un accordo a Copenhagen. La versione interattiva della mappa di 4 gradi permette di selezionare il tipo di impatto che si vuole vedere, di zoomare su particolari località geografiche e accedere a ulteriori informazioni sui dati scientifici sui cui è basata. La versione interattiva si trova sul sito www.ActOnCopenhagen.gov.uk come rappresentato in figura 2.
(2) “Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity”, Nature, vol.461, pp.472-475, 24 settembre 2009, a firma di 28 scienziati. Si veda la pagina “Tipping Towards the Unknown” dello Stockholm Resilience Centre.
(3) Definita dalla Cnn “the most widespread day of environmental action in the planet’s history”, ha visto manifestare gente di 181 paesi in giro per il mondo: si veda il filmato su www.350.org.
(4) “Global Climate Change Policy Tracker: An Investor’s Assessment”, DB Climate Change Advisors, ottobre 2009, http://www.dbcca.com/dbcca/EN/investment-research/investment_research_1780.jsp
(5) “How the Energy Sector Can Deliver on a Climate Agreement in Copenhagen”, Oecd/Iea, 2009. Un altro rapporto presentato della Iea, “Implementing Energy Efficiency Policies: Are IEA Member Countries on Track?”, contiene venticinque raccomandazioni per il miglioramento dell’efficienza energetica: se realizzate immediatamente a livello mondiale permetterebbero di ridurre le emissioni mondiali di CO2di 8,2 giga‐tonnellate all’anno nel 2030 (pari al doppio delle attuali emissioni di CO2 dell’Unione).
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