Per le vie tortuose che ritiene evidentemente più comode, in forma obliqua e non diretta, senza mai citare un fatto concreto e incontestabile, il presidente del Consiglio dopo sei mesi ha finalmente deciso di rispondere alle dieci domande che Repubblica gli rivolge dal 14 maggio, rilanciate dai giornali di tutto il mondo.
È positivo che un leader di governo senta infine la responsabilità di rendere conto all’opinione pubblica, o almeno a quella parte di opinione che lo interroga. Anche se questo avviene con un ritardo politicamente di grande significato, dopo insulti rivolti ai cronisti del nostro giornale che gli ponevano in pubblico le domande, dopo l’invito alle aziende a non fare pubblicità sui giornali “catastrofisti”, dopo l’appello agli imprenditori perché boicottassero Repubblica, dopo l’accusa esplicita di eversione, dopo la decisione di citare le dieci domande per un milione di euro di danni, portandole in tribunale perché un giudice le facesse tacere. Questa strategia del Premier, accompagnata dai violenti attacchi personali – a colpi di dossier – della stampa di famiglia a chiunque criticasse il suo operato, non ha evidentemente pagato. Le dieci domande sono rimaste al loro posto per il semplice motivo giornalistico per cui erano nate, e cioè per chiedere conto di contraddizioni e bugie sugli scandali che da sei mesi circondano il Capo del governo, dopo la denuncia del “ciarpame politico” da parte della first lady: lo scambio di favori di giovani ragazze in cambio di candidature politiche.
Molto semplicemente, avevamo chiesto al Premier di cancellare quei dubbi, rispondendo alle domande con un’intervista. Dopo i quattro giorni di attesa concordati, non avendo ricevuto una risposta, abbiamo pubblicato le domande. Da allora, le abbiamo ripresentate ogni giorno per la buona ragione che non c’era stata alcuna risposta. Il bisogno di capire, il diritto di sapere, ci hanno autorizzati ad andare avanti, nella convinzione che là dove si aprono spazi di opacità e di menzogna nel potere pubblico, si apre anche uno spazio che noi consideriamo naturale e obbligatorio per il giornalismo.
Questa indagine giornalistica permanente ha provocato molte reazioni in Italia. I lettori hanno risposto con grandissimo interesse, prendendo parte in ogni modo come cittadini a questa richiesta di rendiconto del potere. Alcuni giornali ci hanno spiegato invece che non si fa così, in Italia non usa: e si vede. Più significative due accuse – tra le tante – che in questi mesi sono state lanciate contro Repubblica. La prima sostiene che la critica di un giornale ad un leader è un atto contro la sovranità popolare, contro l’unione in un solo corpo mistico tra il Capo e il suo popolo, intangibile e insindacabile: basta rispondere che nei Paesi democratici il potere è sottoposto ogni giorno al giudizio della stampa e della pubblica opinione, e il voto non è un salvacondotto, anche perché nella nostra Costituzione la sovranità appartiene al popolo, non “emana” dal popolo verso il leader. Ma questa prima accusa prepara la seconda: l’antipatriottismo, l’azione anti-nazionale di chi criticando il potere indebolisce la sacra unzione che consacra l’unione carismatica tra leader e popolo nel destino della nazione.
È ovvio che chi critica il legittimo potere – di fronte a ciò che ritiene un errore, una menzogna, un abuso – ama il suo Paese almeno quanto chi detiene quel potere, o chi sta a guardare: lo ama attraverso la democrazia, la Costituzione, il rispetto delle istituzioni, della regola civica dei diritti e dei doveri che deve valere per tutti, governanti e cittadini. In più, il proprio Paese si serve quando ognuno realizza in libertà e coscienza il proprio compito svolgendo il proprio ruolo. E le democrazie contemplano e annoverano i casi molteplici in cui – nello svolgere ognuno le sue libere funzioni – stampa e potere giungono ad un confronto anche duro, che spesso diventa conflitto. Con una differenza: negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna le inchieste e le campagne sul potere di giornali che nessuno si è sognato di definire “nemici” o “fabbriche di odio” non sono mai state tacciate di antipatriottismo né di violazione della volontà popolare. Nemmeno quando i leader messi sotto accusa erano eletti dal popolo davvero.
La realtà e la verità sanno comunque farsi strada, in questo falso rumore italiano di comodo. Lo scandalo berlusconiano ha posto prima una questione di verità, con le bugie non spiegate, poi una questione di libertà, con gli attacchi ai giornali. La reazione violenta ha fatto vittime. Il direttore di Avvenire ha perso il posto e il lavoro dopo aver criticato il Premier perché un giornale di famiglia ha pubblicato un foglio anonimo scritto nel linguaggio dei servizi che lo tacciava di omosessualità. Il presidente della Camera, per le sue opinioni costituzionali e dunque non ortodosse è stato ammonito a mettersi in riga, pena il ricorso a presunte vecchie dicerie a sfondo sessuale: si è cioè cercato di coartare la libertà politica e personale della terza carica dello Stato. Il giudice Mesiano, colpevole di aver pronunciato una sentenza civile non favorevole a Fininvest nella causa con la Cir in seguito all’accertata corruzione che ha deviato fraudolentemente il corso imprenditoriale della Mondadori, è stato pestato mediaticamente, con l’arma del dileggio, sulle televisioni di proprietà del Premier.
È un panorama impressionante, sullo sfondo delle 10 domande. Lo ha disegnato il Capo del governo, pur di non rispondere, pur di non chiarire, pur di non assumersi una responsabilità. Come se una grande democrazia, in mezzo all’Europa e al 2009, si potesse governare a colpi di dossier, di intimidazioni, di minacce, seminando la paura al posto dell’autorevolezza, usando i telegiornali sotto dominio per occultare e re-inventare la realtà, i giornali per colpire non le idee avverse, ma gli avversari fisicamente, togliendoli di mezzo, se possibile rovistando nei loro letti.
Di fronte a questo quadro italiano, i giornali di ogni Paese (di altri Paesi) hanno usato lo stesso canone di Repubblica, con il medesimo allarme, uguali interrogativi e giudizi assai simili. Si sono mossi intellettuali, giuristi, migliaia di cittadini. Roberto Saviano ha spiegato che “la libertà di stampa significa anche libertà di non avere la vita distrutta, senza un clima di minaccia, senza avere contro non un’opinione opposta, ma una campagna che mira al discredito totale di chi la esprime”. Gustavo Zagrebelsky, Franco Cordero e Stefano Rodotà hanno raccolto mezzo milione di firme denunciando l'”intimidazione” contro chi esercita il diritto dovere di informare. Il direttore del Guardian ha scritto che Repubblica ha “tutti i diritti del mondo” di fare le sue 10 domande. La Nieman Foundation per il giornalismo e la Kennedy School di Harvard hanno spiegato che “il governo deve essere responsabile nei confronti dei cittadini e il ruolo della stampa è pretendere questa responsabilità”.
La ragione delle dieci domande, per tutti questi mesi, sta infatti proprio qui: la responsabilità del potere davanti alla pubblica opinione. Ed è la stessa ragione che infine ha sopravanzato – per ora – gli insulti e i dossier, le querele e gli attacchi, costringendo il Premier a rispondere. Lo ha fatto in forma obliqua, evitando il confronto con Repubblica, in forma ambigua, facendosi riformulare le domande dal suo intervistatore-notaio, in un libro edito dalla casa editrice di sua proprietà. Un’operazione politica controllata e protetta, dunque. Dove l’interesse del Premier non è la verità da chiarire, ma la pressione dei giornali da allentare.
Il risultato, come i lettori possono constatare, è una prudentissima navigazione al largo delle vere questioni, senza fatti, senza veri chiarimenti, senza circostanze che possano spiegare la verità ai cittadini. È come la denuncia – tutta politica, esplicita, certificata dal suo notaio, che ieri ha annunciato alle agenzie “la risposta alle dieci domande di Repubblica” – di un limite. Dobbiamo prendere atto di ciò che il Premier ha fatto, e anche del modo in cui ha voluto e potuto farlo: ha dovuto infine rispondere, dopo sei mesi, dimostrando che le domande erano legittime e doverose, com’era doveroso affrontarle, tanto che il ritardo nei confronti dei nostri lettori è politicamente colpevole. E ha risposto nell’unico modo imbarazzato, generico e circospetto che può oggi permettersi. La vera risposta – ecco il punto – è la coscienza politica di questo limite, che mentre il Premier replica, lascia la questione fondamentale della verità intatta, e irrisolta.
Questo è un problema aperto non con Repubblica, ma con il Paese, insieme con un’ultima inevitabile domanda: signor Presidente, qual è la ragione che su queste vicende le impedisce di dire davvero la verità ai suoi concittadini? Come se fossimo in un Paese normale, noi continueremo a chiederlo, finché lo capiremo.
La Repubblica, 6 novembre 2009