E’ bastata una domanda che prima nessuno aveva mai posto, per gettare un fascio di luce su un mondo che ci illudevamo di conoscere già. La domanda, apparentemente innocua, è comparsa per la prima volta a primavera scorsa nei 160 mila questionari che l’Istat distribuisce per la sua rilevazione trimestrale sulle forze di lavoro. Chiedeva ai dipendenti pubblici e privati di precisare la propria retribuzione netta, straordinari inclusi, tredicesime e quattordicesime escluse. Ne è uscita una seconda Italia. Un Paese che lavora (almeno) altrettanto, svolge le stesse mansioni, e guadagna di meno. Spesso molto di meno. A volte scandalosamente meno, senza che questa differenza emerga appieno nella consapevolezza degli italiani. Per i lavoratori dipendenti stranieri, che a dati ufficiali del secondo trimestre 2009 sono l’8,3% degli occupati nel nostro Paese, la differenza di retribuzioni rispetto a chi possiede la cittadinanza è in media del 22,8%. Per gli uomini è del 18,9% ma per le donne sale al 28,4%: le dipendenti straniere guadagnano quasi un terzo di meno, anche quando svolgono lo stesso lavoro delle italiane e sono anche loro regolarmente sotto contratto.
Il salario medio mensile di un immigrato, assunto a tempo determinato o indeterminato, dopo tasse e contributi è di appena 962 euro. Di persone così, in agosto, la Fondazione Leone Moressa di Mestre ha segnalato la capacità di spedire alle famiglie nei Paesi d’origine in media 155 euro al mese: un tasso di risparmio da italiani emigrati nella Svizzera del dopoguerra, o magari da cinesi di oggi; certo sono numeri che alzano il velo su un nuovo ceto sociale capace di comprimere al massimo i propri consumi, concentrato com’è sull’obiettivo di un’emancipazione dilazionata per anni o generazioni.
Per capirci qualcosa di più la Fondazione Moressa, grazie al lavoro di Valeria Benvenuti, si è concentrata ora su quella domanda dell’Istat riguardo alle retribuzioni nette. I dati sono aggiornati alla metà di quest’anno. E ne emergono enormi differenze fra territori, con scarti inversamente proporzionali alla ricchezza delle regioni. Più alto è il reddito di un’area e minore (relativamente) è la differenza fra la paga di un dipendente italiano e quella di uno straniero. E viceversa: in Campania la retribuzione media dei lavoratori dipendenti immigrati è di 719 euro, il 40,8% meno di quella degli italiani; in Molise è di 594 euro, il 49,4% di meno. Forbici tra il 30 e il 42% si ritrovano nel Lazio, in Calabria, Sicilia, Puglia e Sardegna (ma non in Abruzzo, dove è appena al 13,9%). È del resto nelle regioni meno sviluppate della Penisola che gli stranieri guadagnano meno rispetto al resto dei dipendenti, ma anche in assoluto. In quasi tutto il Mezzogiorno, per una donna straniera sotto contratto guadagnare 700 euro netti al mese è già da considerare un privilegio.
Il processo di inserimento è più avanti al Nord, ma poi neanche tanto. In Trentino-Alto Adige il ritardo è del 16,2%, in Piemonte e Valle d’Aosta del 19,9%, un livello circa pari a quello del Veneto e poco meno che in Lombardia. Soprattutto, queste differenze non sono legate solo ai territori, perché si ritrovano anche a parità di mansioni in ogni singolo settore. Quasi nove dipendenti immigrati ogni dieci lavorano con un inquadramento contrattuale come operai, ma il primato spetta a quelli che l’Istat definisce «altri servizi alla persona»: in sostanza colf, badanti, collaboratrici domestiche. Per questa popolazione in stragrande maggioranza femminile la paga delle straniere è del 29,7% inferiore a quella delle italiane e si ferma a 704 euro al mese.
Non che per la verità tutti i settori dell’economia manifestino un ritardo così marcato: nelle costruzioni e in agricoltura lo scarto risulta di appena il 2%, per «alberghi e ristoranti» del 3,7%, nel commercio del 3,8%. Le differenze nelle retribuzioni esplodono invece, a seconda del passaporto che un dipendente ha in tasca, nel settore manifatturiero. Qui gli operai stranieri prendono l’11,2% in meno; ancora più marcate sono poi le differenze in «istruzione, sanità e servizi sociali», altro settore a forte prevalenza femminile, e nei «servizi alle imprese».
Insomma è bastata una nuova domanda inserita dall’Istat in un questionario di routine, per scoprire un’Italia a doppia velocità. È un sistema in cui le imprese diventano più competitive sui costi grazie al lavoro a buon mercato degli immigrati, una sorta di delocalizzazione strisciante e soprattutto «in loco». Non che non fosse già sotto gli occhi di tutti: i valori che emergono peraltro non catturano il mondo dei clandestini o degli irregolari, dove gli scarti sono con ogni probabilità ancora più vasti. Questi coperti dal questionario dell’Istat sono lavoratori dipendenti, sottoposti a contratti nazionali e dai caratteri nella gran parte dei casi fortemente standardizzati. È anche per questo che Valeria Benvenuti, la ricercatrice della Fondazione Moressa, avanza un’ipotesi di spiegazione: è paradossalmente la rigidità dei contratti nazionali, non la loro flessibilità, ad alimentare la sperequazione di paga fra chi è italiano e chi no.
Dice Valeria Benvenuti: «In molti casi la differenza nella retribuzione dipende soprattutto dall’anzianità dei dipendenti in un’impresa, perché solitamente gli stranieri sono stati assunti da meno tempo e beneficiano di un numero minore di scatti retributivi, anche a parità di mansioni e di produttività ». I valori dei salari in base alle diverse età sembrano confermare questa ipotesi di Benvenuti: per i lavoratori più giovani, quelli tra i 15 e i 24 anni, non esiste quasi alcuna differenza fra stranieri e italiani (appena lo 0,5%); il ritardo invece aumenta via via che i dipendenti sono più anziani e per quelli fra i 55 e i 64 anni di età si arriva addirittura al 39%. Insomma gli stranieri, ultimi arrivati, non beneficiano di tutti gli scatti automatici che hanno accumulato i loro colleghi italiani. La sperequazione, in questo caso, sarebbe dunque semplicemente l’effetto automatico del modello contrattuale italiano. Se questo è vero, la cattiva notizia è che l’attuale modello contrattuale crea per gli immigrati discriminazioni spesso abissali; quella buona, se nulla cambierà, è che sono destinate a riassorbirsi benché molto lentamente nei decenni.
Resta però il fatto che la forbice dei redditi risulta sempre più ampia via via che sale il livello di istruzione. Fra chi ha solo la licenza elementare, c’è un ritardo di retribuzione del 6,9% degli immigrati sugli italiani; fra chi è laureato, il ritardo invece si amplifica fino al 27,5%. Abbastanza da far sospettare che il modello contrattuale non sia la sola causa di discriminazione, come spiega il sindacalista iraniano della Cgil Kurosh Danesh nell’intervista qua sotto.
Il Corriere della Sera, 4 novembre 2009