Era scritto nero su bianco nel comunicato dell’ufficio stampa del ministero dell’Istruzione, e tutte le agenzie di stampa lo hanno fedelmente riportato: nella riforma dell’università varata la scorsa settimana l’assegno per i ricercatori sarebbe stato rivisto, aumentando lo stipendio da 1300 a 2100 euro.
I ricercatori esultavano, in fondo qualcosa avevano ottenuto, ma non sapevano che nel frattempo qualcosa di misteriosamente imponderabile si stava consumando che avrebbe cancellato l’aumento, e introdotto tante piccole parole tra un comma e l’altro dei quindici articoli del provvedimento fino a renderlo un po’ meno meritocratico, meno anti-baronale e anche meno trasparente.
Tutto inizia venerdì 23 ottobre, giorno di Consiglio dei ministri. Alle dieci del mattino il testo definitivo è pronto. Sono 23 pagine con in alto la dicitura «versione 6» e la data «venerdì 23 ottobre ore 12». La riunione però salta, il premier Silvio Berlusconi ufficialmente è bloccato in Russia, tutto è rinviato.
Poco male, viene convocata una nuova riunione del governo. In teoria, il testo dovrebbe soltanto essere ripresentato. E’ vero, ma solo in parte. Il giorno del consiglio i fogli distribuiti hanno, in alto, la dicitura «versione definitiva» e «mercoledì 28 ottobre ore 9», ma le pagine sono 24. Non è lo stesso testo.
Ad essere cambiato è innanzitutto l’articolo 10 sugli assegni di ricerca. L’importo – si specifica – viene «determinato dall’ateneo ai sensi dell’articolo 51, comma 6, nono periodo, della legge 27 dicembre 1997, n.449». Tradotto in cifre, a 1300 euro ammontava l’assegno prima del ddl, a 1300 euro ammonterà anche dopo.
Dal ministero confermano, ma spiegano di essere intervenuti «per evitare un trattamento economico diverso tra ricercatori delle università e quelli degli enti di ricerca» e promettono invece di trovare un modo per garantire l’aumento promesso in «un provvedimento successivo».
Dal Fondo per il merito degli studenti sono scomparse le borse di studio, confermati soltanto i buoni studio da restituire al termine del ciclo universitario. I professori ordinari e associati non devono più essere sottoposti ad una conferma in ruolo. Sono state aggiunte due verifiche in più, con un inevitabile allungamento dei tempi di approvazione, di molte norme fra cui la valutazione dei docenti, compresa la verifica dell’orario di lavoro.
Nella lotta ai crediti riconosciuti agli studenti vengono introdotte «deroghe» da definire in un provvedimento successivo in relazione «a particolari esigenze degli Istituti di formazione della pubblica amministrazione».
A questo punto la parola passa al Senato, dove i parlamentari della stessa maggioranza hanno già annunciato grande battaglia e ulteriori modifiche al provvedimento.
La Stampa, 3 novembre 2009