Cercavano la droga e un boss latitante, sono inciampati nel telefono di un collega carabiniere e poi precipitati nel video sex di Marrazzo. E’ un altro lato della storia. Uno di cui si parla poco, ancora confuso perchè c’è di mezzo un morto, i clan, un’inchiesta più grande che inciampa in una, sotto il profilo criminale, sicuramente più piccola. Entrambe non si sa che fine faranno. La rovina dell’ex governatore del Lazio comincia quando gli investigatori del Ros, verso la metà di settembre, seguendo una pista di narcotraffico e di criminalità organizzata ascoltano una frase: “Dobbiamo vendere il video del Presidente”. Mentre gli investigatori sono sulle tracce di un pericoloso latitante seguendo i percorsi del mercato della cocaina che dalla provincia di Caserta risale verso Roma passando per il basso Lazio, s’imbattono nel telefono di uno dei quattro carabinieri poi arrestati. Da quel momento l’indagine devia, va decisamente fuori strada, finisce in un pantano di trans, ricatti e reputazioni rovinate e svela una storia di ritorsioni e vendette.
I punti certi. Da tredici anni i militari del Ros danno la caccia ad Antonio Iovine, 45 anni compiuti meno di un mese fa, vicerè dei Casalesi ancora a piede libero insieme con Michele Zagaria, l’altra primula rossa della criminalità organizzata del casertano. A settembre, poco prima che venga intercettata la frase sul «video del Presidente», un’informativa dei carabinieri di Caserta avvisa che ‘o Ninno (Iovine), potrebbe aver trovato rifugio per la sua latitanza nel tratto di territorio che va dal litorale domitio fino al golfo di Gaeta, il sud pontino, il basso Lazio, in un posto qualsiasi tra Formia, Latina, Fiondi e Sperlonga dove i clan da anni, raccontano le inchieste, riciclano danaro, fanno arrivare la droga e la smistano verso nord, soprattutto verso la Capitale. Ora, originario di Sperlonga, è proprio Gianguarino Cafassi, il pusher dei trans, in stretto contatto con Marrazzo e confidente dei carabinieri della compagnia Trionfale: colui che secondo i verbali degli arrestati aveva soffiato la presenza del Governatore in via Gradoli. Uno dei protagonisti del caso ma di cui finora è stato, forse, detto molto poco. Cafassi è anche l’uomo che, hanno raccontato le croniste di Libero Brunella Bolloli e Fabiana Ferri, il 18 luglio le contatta e offre il video di Marrazzo per 500 mila euro. «Ho bisogno di questi soldi, la mia vita è in pericolo» dice loro in modo confuso. L’uomo che ha avuto tutte queste parti in commedia, è stato trovato morto il 12 settembre in una stanza d’albergo della Capitale. Arresto cardiocircolatorio, diceva il referto redatto dalla polizia. Overdose, è molto probabile. «Grossi problemi di salute, pesava 200 chili» dicono oggi gli investigatori. I quali però hanno deciso, su indicazione dei magistrati, di «fare verifiche sul fasciolo di Cafasso». Andare a vedere meglio e più a fondo di cosa è morto, come, perchè. Anche la sua abitazione sarà analizzata meglio. Cercando altro.
Passo dopo passo, le domande seguenti sono: esistevano rapporti tra i Casalesi del basso pontino e Cafasso? Era, per dirla in chiaro, colui che garantiva copertura, ad esempio, nel ricco mercato dei trans? E poi, che rapporti c’erano tra Cafasso e Marrazzo? Qualcuno bisbiglia oggi che tra i due ci fosse «un rapporto diretto». Certo è che le visite di Marrazzo in via Gradoli, così frequenti, spesso di mattina, e con così tanti soldi (5 mila ma forse anche 15 mila in mazzette da 500) farebbero ipotizzare visite più legate al bisogno di consumare droga che al sesso.
Mancano tanti pezzi importanti alla storia. Cafasso non può più parlare. Brenda e Michelle, altri due trans frequentati da Marrazzo in via Gradoli, non sono più stati trovati. I 4 carabinieri cercano di allontanare da sè il maggior numero di responsabilità: il video, per esempio, lo avrebbe girato Cafasso (il gip non ci crede e lo addebita a loro). I trans parlano, anche troppo, ma le loro parole vanno riscontrate una per una. Marrazzo dovrà dire molto perchè finora ha detto poco e in modo confuso. Un fatto è certo, e torniamo al sud pontino controllato dai clan: il governatore tra agosto e settembre ha dato qualche dispiacere a chi gestisce gli affari in quella zona. A fine agosto, nonostante le resistenze, ha fatto nominare un nuovo direttore del Mercato ortofrutticolo, un tecnico in grado di tenere i clan lontano dagli affari del mercato. Due settimane fa, sempre a Fondi, aveva detto no ad un’altra nomina importante che vede coinvolti Mof e Imof, la società che gestisce gli immobili del mercato per cui negli anni sono stati spesi 75 miliardi della Cassa Mezzogiorno. Il no di Marrazzo è stato ignorato. Dopo pochi giorni lo hanno chiamato i carabinieri. E la sua vita politica è finita per sempre.
L’Unità 31.10.09
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La strana asta del video rubato, di Mariagrazia Gerina
«Senti ho visto adesso Piero…. ste cose non le dire… però m’ha detto…guarda Tonino io sto a questo punto…». «E niente… questa mattina… ho fatto un grosso lavoro fatto bene perché finalmente… è venuto il Presidente… levano la delega a quel deficiente dell’assessore». Piero è Marrazzo, il Presidente della Regione Lazio, prima che lo scandalo di via Gradoli si abbattesse su di lui. Tonino è Antonio Angelucci, il “re” delle cliniche private e della riabilitazione, con accreditamenti per 90 milioni solo nel Lazio. E così parlava al telefono di «Piero» con la moglie e con il suo uomo di fiducia. Stralci di conversazioni datati settembre 2007 finiti nell’inchiesta della Procura di Velletri su una struttura di proprietà degli Angelucci, il San Raffaele di Velletri. Una ricostruzione a tutto tondo del metodo Angelucci. Biglietti gratis alla partita, favori, regalie. I giornali usati come una clava. E poi pullman sotto il palazzone di via Colombo per protestare quando la Regione si rifiuta di riconoscere nuovi accreditamenti.
«Con il bastone e la carota» – scrivono gli inquirenti – Antonio Angelucci tentava di interferire nelle scelte della sanità. Ma mettiamo tutto questo da parte. Solo una premessa per dare la misura della confidenza tra Angelucci e il presidente della Regione Lazio. E veniamo alle vicende di questa estate. È l’11 luglio Gianguarino Cafasso, il pusher di via Gradoli, contatta attraverso il suo avvocato una cronista di Libero, le fa sapere che ha un video molto compromettente su Marrazzo. Lei avverte la collega che dirige la Cronaca di Roma di Libero e insieme vanno a vedere di che si tratta. Guardano il video. Vedono Marrazzo, il trans, l’interno di un appartamento. Sono passati appena otto giorni da quando i carabinieri-mele marce hanno fatto irruzione in via Gradoli. In otto giorni, il video arriva sul tavolo del primo possibile acquirente, Libero, appunto, il giornale di proprietà degli Angelucci. Le due croniste riferiscono al direttore, Vittorio Feltri. Gli dicono della proposta di acquisto: 500mila euro. Lui si fa una risata e risponde che non ha nessuna intenzione di comprarlo.
Insomma, la reazione non è molto diversa da quella di Antonio Signorini, il direttore di “Chi”, settimanale di proprietà della famiglia Berlusconi. Contattato a settembre, vede il video, decide di non comprarlo. Ma la prima cosa che fa è informare il suo editore. Marina Berlusconi avverte il padre, Silvio. E il presidente del consiglio decide che bisogna fare qualcosa. Quindi, alcuni giorni dopo, telefona al presidente della Regione Lazio e lo avverte che c’è in giro quel video su di lui. «No, invece in questo caso gli Angelucci non è stato informato di nulla», spiega la fac-totum dell’editore di Libero, Daniela Rosow. Gli Angelucci – spiega – non vennero a sapere del video né a luglio, quando editore era Feltri, né a ottobre, quando il nuovo direttore Maurizio Belpietro decide di vedere in prima persona quel video. È il 12 ottobre. «Non sapevo nulla che qualcuno nei mesi passati aveva già cercato di contattare Libero, sono diventato direttore il 12 agosto e nessuno me lo aveva raccontato», spiega Belpietro: «Del video vengo a sapere da una mia fonte, un collega del Giornale, a quel punto mi informo, contatto l’agenzia Photomasi e lo vedo», spiega Maurizio Belpietro. «Come sono solito fare, ho deciso senza informare l’editore che quel video non mi interessava». Nessuna telefonata all’editore, poi, per raccontargli che in giro c’era un video assolutamente compromettente per il governatore della Regione Lazio. Anche se, secondo una ricostruzione fatta da Carmen Masi, lo stesso Angelucci esattamente due giorni dopo va alla Photomasi, vede il video e si dice interessato. «Ma io del video con Angelucci ne parlo solo quando il caso è già scoppiato e scrivo sul mio giornale che anche io lo avevo visto: lo incontro per altri motivi… », spiega Belpietro.
E anche Angelucci smentisce: «Mai visto quel video, mai comprato, mai saputo nulla da Belpietro». Un comportamento veramente britannico. D’altra parte, gli Angelucci questa estate erano presi da altre vicende, sempre legate al presidente Marrazzo ma nella sua veste istituzionale. A febbraio, infatti, l’inchiesta della Procura di Velletri accende i riflettori su uno dei tanti pezzi dell’impero Angelucci. Scatta l’ispezione regionale. Si scopre che i pazienti venivano dirottati da Velletri, struttura accreditata, a Montecompatri, in una struttura non accreditata. E a settembre a Montecompatri viene revocata l’autorizzazione. Scatta la revoca anche per Velletri, a cui gli uffici stanno ancora lavorando. Intanto, come se non bastasse due decreti intaccano il cuore del sistema Angelucci. Il numero 46 limita il day hospital a 10 posti ogni 100, prima in alcuni casi erano il 40%. L’altro colpisce gli introiti sui trattamenti di lungodegenza. Insomma, a luglio e nei mesi successivi gli Angelucci avevano altro a cui pensare. La sanità laziale, costretta dal Piano di rientro a tagliare circa 30-35 milioni alle cliniche Angelucci. «Ovviamente non solo a loro», spiega il vice di Marrazzo, Montino, finito nel mirino di Libero, due giorni fa.
L’Unità 31.10.09
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Il duello Marrazzo-Angelucci iniziato dai tagli alla sanità .Al re delle cliniche 30 milioni in meno dalla Regione, di GIOVANNA VITALE
Nello scandalo a base di ricatti e video hard che ha travolto il governatore Marrazzo, resta ancora da chiarire il ruolo dei giornali contattati per l’acquisto del filmino realizzato dai carabinieri-infedeli. Almeno quattro, secondo i verbali di interrogatorio. Tra questi Libero – rivela l’intermediario Max Scarfone – che in realtà fu il primo: raggiunto in agosto dal “pappone” Gianguarino Cafasso, che mostrò la registrazione a due croniste del quotidiano. Una ricostruzione confermata dalla titolare dell’agenzia fotografica, Carmen Masi. La quale tra l’altro racconta che il 14 ottobre «l’editore Angelucci è venuto alla Photomasi e ha visionato il filmato, dimostrandosi interessato». Trattativa poi interrotta dall’intervento del direttore di Chi, Alfonso Signorini, che chiese alla Masi di bloccare tutto perché, oltre a Panorama, anche Marrazzo avrebbe chiamato per ritirare la merce dal mercato. Ed è qui che scatta la coincidenza, tutta da verificare. Perché l’editore di Libero voleva comprare il video, se il suo direttore lo aveva rifiutato? Una questione che tuttavia Giampaolo Angelucci smentisce alla radice. In una nota diffusa ieri, infatti, afferma di «non essersi mai recato nell’Agenzia PhotoMasi, non aver mai conosciuto, incontrato o parlato con la signora Masi e non aver mai visionato il filmato relativo alla vicenda».
Eppure, qualche interesse gli Angelucci potevano pure averlo. Da tempo i rapporti col governatore s’erano deteriorati. Colpa dei tagli alla sanità privata che avevano centrato le cliniche dell’editore. Un impero – la Tosinvest, 12 strutture per oltre 1.500 letti in convenzione – che ogni anno riceve dalla regione Lazio 85 milioni di finanziamento per la sola riabilitazione. È il gip Roberto Nespeca, colui che a inizio 2009 spedì agli arresti Angelucci padre e figlio insieme ad altre undici persone per associazione a delinquere e truffa ai danni del Servizio sanitario nazionale, a descrivere l’intreccio tra media e sanità. «Traspare chiaramente quale sia l’influenza e l’ascendete esercitato, anche in considerazione dei mezzi di comunicazione a disposizione; ed invero, i “proprietari” della Tosinvest, Angelucci Antonio e Angelucci Giampaolo, sono editori di quotidiani e, come le indagini hanno dimostrato, i mezzi di informazione sono stati strumentalizzati per poter perseguire i propri obbiettivi. I vertici del sodalizio dimostrano di essere consapevoli di poter superare qualunque ostacolo (…) potendo orientare l’informazione per i propri fini». Sono le intercettazioni a fornire la prova. In particolare quella del settembre 2007 in cui Angelucci senior, oggi deputato Pdl, dice alla moglie: «È venuto il presidente (verosimilmente Marrazzo), ho fatto quello che volevo io… Levano la delega a quel deficiente dell’assessore… mercoledì ci convoca lui e ci fa un accordo fino al 2010». Un provvedimento poi varato per consentire a Tosinvest di rientrare almeno in parte dei tagli subìti dal 2006. Come a buon fine è andata la defenestrazione del «deficiente»: ovvero l’ex assessore alla Sanità Augusto Battaglia, dimessosi nel giugno 2008. Tuttavia è a partire da questa inchiesta che Marrazzo cambia atteggiamento. Prima istituisce una commissione di indagine e manda gli ispettori al San Raffaele di Velletri cui, all’inizio di luglio, vengono bloccati i pagamenti. E poi firma due decreti: per fissare un tetto alla riabilitazione – scelta a causa della quale Tosinvest perde 30 milioni – e abbattere i costi delle prestazioni.
La Repubblica 31.10.09
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La macchina del fango partita da Milano come un manuale di killeraggio politico
Da Berlusconi a Signorini, i burattinai del caso Marrazzo, di Giuseppe D’Avanzo
Nella galleria dei “birilli” colpiti Veronica Lario, Boffo, Fini e il giudice Mesiano. Combinato anche un incontro tra l’editore di ‘Libero’ e la titolare dell’agenzia Masi
Le cose stanno così. Quei carabinieri che aggrediscono Piero Marrazzo in un appartamento privato, in compagnia di un viado, non sono canaglie a caccia di un bottino.
Non stanno preparando un’estorsione contro il governatore. Stanno raccogliendo il “materiale” per un ricatto che sarà utilizzato da altri, in altro modo, in un’altra città, con un altro obiettivo da quello del denaro (si è mai visto un estorsore che rinuncia al prezzo dell’estorsione?). Sono canaglie che forse bisognerà cominciare a definire rat-fuckers, come si chiamavano tra loro, orgogliosi, gli operativi dell’affare Watergate. Schiacciano con violenza Marrazzo contro un muro. Lo obbligano a calarsi i pantaloni. Lo fotografano. Trasferiscono il video a Milano. È Milano, con la sua industria editoriale, la scena del delitto. Perché è solo lì che quelle immagini possono trovare la mano che le pubblica. È da questo momento che l’affaire mostra un significato pubblico e un senso politico che rende oziosa, peggio incoerente con i fatti, la tiritera «chi di sesso ferisce, di sesso perisce». Che cosa succede? Qualcosa che – niente di più, niente di meno – si può leggere nei manuali di un «assassino politico». Il political hitman deve uccidere ma non lasciare la sua impronta. Così si deve «provocare una fuga di notizie verso i media rimanendo al di fuori della mischia mentre l’avversario viene tempestato da rispettabili giornalisti». Accade nel nostro caso. Le immagini vengono proposte a Oggi. La direzione (Andrea Monti, Umberto Brindani) le rifiuta. Bisogna venire allo scoperto, allora. Accettare il rischio di compromettersi. È questo il momento in cui la scena s’illumina e appaiono al proscenio i protagonisti, le comparse, il mattatore. Nel primo atto, il protagonista assoluto è Alfonso Signorini. Che soltanto una irresponsabile ingenuità potrebbe far definire semplicemente «il direttore di Chi». A leggere le testimonianze di un carabiniere canaglia, di un fotografo, della titolare della Photo Masi che ha l’incarico di commercializzare il video del ricatto, Signorini è il padrone del gioco. Riceve in Mediaset e tratta in Mondadori. Dispone per l’intera gamma dei periodici del gruppo editoriale. Lo dice con chiarezza, nei giorni successivi, informando costantemente Silvio Berlusconi. È esplicito uno dei carabinieri canaglia, Antonio Tamburrino: «A me fu detto che Signorini ne avrebbe dovuto parlare con Silvio Berlusconi». È un fatto che Signorini è il playmaker in quella compagnia e nell’affaire. Consiglia, indica, sollecita. Combina non soltanto le scelte dei direttori dei media berlusconiani, sovraordinato a Vittorio Feltri, capataz del giornale di famiglia, ma anche delle testate del gruppo Angelucci (Libero, il Riformista). Organizza un incontro di Photo Masi con il direttore di Libero, Maurizio Belpietro, il 12 ottobre. Due giorni dopo, Signorini combina un breafing tra Carmen Masi e Angelucci. Dice la Masi: «Angelucci visiona il filmato, si dimostra interessato, promette una risposta entro le ore 19 della stessa sera. Ho informato Signorini. Verso le 17, mi ha contattato telefonicamente. Mi ha detto di fermare tutto perché Panorama era molto interessato al tutto e dovevano decidere chi doveva pubblicare il tutto». Mente dunque Signorini quando, con voce rotta di falso sdegno, protesta (è storia di qualche giorno fa) che «lui e soltanto lui ha deciso di non pubblicare le immagini di Marrazzo». Sua è la guida della “macchina”. Chi ne decide direzione, percorso e velocità non è Signorini. È, come appare chiaro nel secondo atto di questa vicenda, Silvio Berlusconi, il mattatore. Sa del video, lo vede, lo valuta. Misura le convenienze per due settimane (5/19 ottobre). È più utile pubblicarlo subito o conservarlo per tempi politicamente più opportuni? Il 19 ottobre, l’imprevisto. Lo informano che i carabinieri sono a caccia di un «video del presidente». Berlusconi comprende che non può starsene con quelle immagini sul tavolo: il «presidente» non è lui, ma quel disgraziato di Marrazzo. Lo chiama, gli dice che deve comprarselo in fretta, il video. Signorini lo aiuterà, ma – se è vero quel che riferisce lo staff del governatore a Esterino Montino (oggi governatore vicario) – aggiunge: «Rivolgiti a Giampaolo Angelucci, ti libererà dai guai». Il capo del governo non rinuncia agli utili. Con quella mossa, sa di poter avere in futuro la piena disponibilità del destino di Marrazzo. Per intanto, consegna il governatore, commissario straordinario alla sanità, al maggiore imprenditore regionale della sanità privata. Sempre ci sono anche gli affari, propri e degli amici, nelle manovre del capo del governo. Non è il solo contatto del premier con Marrazzo. Il 21 ottobre, il Cavaliere comunica al governatore che è tutto finito, i carabinieri sono ormai in azione, hanno arrestato i furfanti e stanno perquisendo la redazione di Chi. Esterino Montino, che è lì accanto a lui, vede Marrazzo sbiancare come per un malore. Bisogna ora dire quel che vediamo. Furfanti delle burocrazie della sicurezza incastrano un politico. Le immagini, estorte con la violenza in un appartamento privato, vengono consegnate a un alto funzionario (Signorini) di un sistema editoriale (Mondadori, Mediaset e indirettamente Tosinvest di Angelucci) governato direttamente da un proprietario che è anche presidente del consiglio. È una macchina organizzata per seppellire nel fango chiunque osi dissentire. Quel che accade in via Gradoli, ha dunque la stessa rilevanza di un prologo, in questa storia. Con buona pace di chi, come Giuliano Ferrara, parla di «deriva sessuofobica». L’affaire Marrazzo non è una storia di sesso e il sesso non è il focus della storia. L’affaire ci espone, nei suoi ingranaggi, una “macchina del fango” di cui già avevamo avvertito la pericolosità. È la “macchina del fango”, il cuore di questa storia. Il sesso l’alimenta. Le abitudini private di un ceto politico, amministrativo, professionale, imprenditoriale sono o possono diventare il propellente di un dispositivo di dominio capace di modificare equilibri, risolvere conflitti, guadagnarsi un silenzio servile, azzittire e punire chi non si conforma, mettere in fuori gioco o espellere dalla competizione politica gli avversari. L’affaire Marrazzo svela, come meglio non si potrebbe, le pratiche e le tecniche di un potere che, per volontà e per metodo, abusa di se stesso mostrandosi come pura violenza. Nessuno può meravigliarsene. Berlusconi, come gli autentici bugiardi, lascia sempre capire che cosa ha in mente perché – sempre – dice quel che fa e fa quel che dice. Scombussolato dalla “crisi di primavera” quando salta fuori la «commistione tra boudoir e selezione della classe dirigente politica», arruffato da una minorenne che confessa come e quando «Papi» gli ha promesso o la ribalta dello spettacolo televisivo o un seggio in Parlamento come custode della volontà di quel popolo sovrano evocato in ogni occasione, Berlusconi in luglio riordina le idee e lancia la “campagna di autunno”. Cambia squadra. Vittorio Feltri al Giornale. Belpietro a Libero. Signorini su tutti. Gli avversari, veri o presunti, sono colpiti come birilli. Accade al giudice Mesiano, spiato e calunniato dalle telecamere di Canale5. Accade al direttore dell’Avvenire, Dino Boffo, colpevole di aver dato voce all’imbarazzo delle parrocchie per la vita disonorevole del premier. Accade al presidente della Camera, Gianfranco Fini, minacciato di «uno scandalo a luci rosse» perché responsabile di un civile dissenso politico. Accade a Veronica Lario, moglie ribelle dipinta come un’adultera. È accaduto ora a Marrazzo, ma quanti ora temono che possa accadere anche a loro? Altro che le puzzette al naso di chi ancora ci annoia con lo sproloquio sul gossip. Non parliamo di letto, di pubblico/privato e ormai nemmeno più di trasparenza e fragilità della responsabilità pubblica. Discutiamo di libertà.
La Repubblica 31.10.09