Il prodotto interno lordo italiano è caduto al livello di dieci anni fa, la produzione industriale italiana, con il suo balzo all’indietro del venticinque per cento rispetto al marzo 2008, è precipitata al livello addirittura di vent’anni fa. Lo ha osservato ieri il governatore della Banca d’Italia nel suo intervento in occasione della Giornata Mondiale del Risparmio.
Proiettate su questo sfondo sgradevole ma ineludibile, le polemiche relative al taglio dell’Irap appaiono piuttosto meschine, prive del grande respiro necessario per uscire bene dalla crisi.
Occorre infatti osservare che mentre la caduta produttiva è stata all’incirca uguale per tutti i Paesi avanzati – si colloca attorno al 5 – 6 per cento del prodotto lordo rispetto agli ultimi valori pre-crisi – per economie come quelle tedesca, francese e americana che normalmente crescono dell’1,5 – 2,5 per cento l’anno, ci vorranno 2-4 anni per tornare ai livelli produttivi precedenti, sempre che la fragilissima tendenza positiva degli ultimi 2-3 mesi si consolidi davvero. L’Italia, al contrario, se dovesse tornare alla crescita a passo di lumaca alla quale ci siamo abituati negli ultimi anni, ci metterebbe cinque, forse sette anni per recuperare il livello di prodotto per abitante del 2007-08: sette anni di vacche magre che seguirebbero a sette anni di vacche solo apparentemente grasse durante le quali non abbiamo messo quasi nulla nei granai.
Ci ritroviamo, infatti, non solo con una popolazione invecchiata ma anche con meccanismi economici e fiscali arrugginiti e con settori in cui punte di straordinaria eccellenza convivono con ampie zone di quasi altrettanto straordinaria mediocrità, con imprese che fanno fatica a muoversi in un panorama mondiale divenuto sempre più competitivo senza avere alle spalle il tipo di supporto sul quale possono contare le loro concorrenti di altri paesi.
Eppure riusciamo solo a pensare – e per di più disordinatamente – al futuro immediato. A trattare l’Irap soltanto come possibile oggetto di «sforbiciate» che tocchino, senza distinzione tra «buoni» e «cattivi», tutte le piccole o medie imprese non porterebbe ad alcun vero vantaggio. Tali «sforbiciate» non migliorerebbero, infatti, la situazione italiana di fronte a concorrenti che, grazie a bilanci pubblici decisamente più solidi e a visioni strategiche più chiare, hanno già messo in atto efficaci politiche di riqualificazione industriale.
E’ deleterio che ci si limiti a parlare dell’Irap in termini di riduzione di quantità e non invece di aumento di «qualità», di modificazione profonda. Occorrerebbe partire dalla constatazione che, quale che sia il giudizio storico che se ne vuol dare, l’Irap è oggi un’imposta inadatta alle condizioni congiunturali e strutturali in cui si trova l’economia italiana, con forti effetti collaterali negativi sulle imprese. A parità di gettito, è sicuramente possibile immaginarne una maggiormente capace di stimolare investimenti e crescita e, in definitiva, di favorire l’occupazione. Basterebbe, all’occorrenza «copiare» a piene mani i meccanismi fiscali tedesco e francese di tassazione delle imprese.
Più ancora del boccon di pane eventualmente dato a imprese affamate con una «sforbiciata» che costerebbe comunque diversi miliardi di euro, è importante uno strumento che permetta alle imprese buone di crescere e a quelle meno buone di essere assorbite o ristrutturate. E occorrerebbero punti di riferimento, l’individuazione di settori nei quali si vorrebbe crescere, di strade da percorrere e obiettivi da raggiungere. Su tutto questo, né dalla maggioranza né dall’opposizione pare esser stata avviata alcuna riflessione veramente importante. L’accenno fatto dal ministro dell’Economia durante la stessa Giornata Mondiale del Risparmio per «uno o più fondi di assistenza all’impresa per il rapporto tra debito e patrimonio» potrebbe contenere qualche novità interessante ma è un fiorellino solitario e striminzito in una landa deserta. Ed appare particolarmente infelice il termine «assistenza»: non abbiamo bisogno di un’economia assistita ma di fornire un sostegno che compensi le maggiori difficoltà strutturali delle imprese italiane rispetto a quelle degli altri Paesi.
Il Paese appare quindi impreparato ad affrontare i propri problemi del lungo periodo. Purtroppo lo stesso si può dire anche per il breve periodo, dove la minaccia reale, enunciata chiaramente dalla presidente di Confindustria, è quella del collasso, entro brevissimo termine, di una parte consistente del tessuto delle imprese piccole e medie non tanto o non solo per incapacità propria quanto per motivi di liquidità legati a fattori esterni: rimborsi fiscali in irrimediabile ritardo fanno il paio con forniture non pagate, magari dalle stesse amministrazioni pubbliche che dovrebbero occuparsi della buona salute delle imprese. Se il governo vuole davvero far qualcosa, in primo luogo paghi i debiti commerciali; e riformi una legge ormai infelice. Con la consapevolezza che la partita sarà in ogni caso molto difficile. Come ha detto il governatore della Banca d’Italia parlando della situazione mondiale, «le cose non torneranno come prima».
da www.lastampa.it