Si può morire in carcere a 31 anni. Si può morire senza una causa precisa. Si può morire senza che i propri cari vengano a saperlo. Non succede a Guantanamo, né in una sperduta prigione di guerra. Succede in Italia, dove i diritti umani, e quelli degli imputati in particolare, hanno cittadinanza fin dal 1800, dove la Costituzione tutela la dignità personale e l’integrità fisica, dove una settimana fa Stefano Cucchi, detenuto per possesso di una modesta quantità di droga, è morto inspiegabilmente.
Era stato arrestato il 16 ottobre, ricondotto a casa per la perquisizione dell’appartamento e poi accompagnato nel carcere romano di Rebibbia. “Stava bene” ripetono i familiari rievocando l’immagine di Stefano che varcava la soglia di casa scortato da due agenti. I genitori e la sorella non lo sapevano, ma quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbero visto il giovane in buone condizioni di salute. Al processo per direttissima, avvenuto il giorno seguente, in aula c’era una altra persona: una ragazzo molto più magro, fisicamente provato, con la faccia gonfia e gli occhi tumefatti. Per la famiglia, che assiste impotente al calvario del trentunenne, nessuna spiegazione.
Gli arresti domiciliari, generalmente disposti per reati di minore entità come quello commesso da Stefano, non vengono concessi. Il giovane rimane in carcere, anche se per poco. Nel giro di un paio di giorni viene trasferito al reparto detentivo dell’ospedale Pertini, ufficialmente “per dolori alla schiena”. I familiari, accorsi in ospedale, si scontrano con una muro di silenzio e di omertà. Non possono vedere il loro caro, non possono parlargli e nessuno, né forze dell’ordine, né personale ospedaliero, ha intenzione di informarli sulle sue condizioni.
Pochi giorni dopo, inesorabile e fredda, come solo un atto burocratico può essere, alla famiglia viene notificata un’ordinanza del tribunale: per Stefano Cucchi è stata disposta un autopsia che accerti le cause del decesso. Stefano è morto. Nessuno si è preoccupato di avvertire i suoi parenti, nessuno ha mostrato un briciolo di solidarietà umana, nessuno si è fermato per dire un semplice “mi dispiace”. Alla sorella e ai genitori rimane questo: quelle quattro righe vigliacche e una voragine di dolore.
Quando finalmente viene accordato loro il permesso di far visita al figlio e fratello in obitorio, lo scenario sembra quello di un incubo. Quello non è Stefano. “Aveva il volto pesto, un occhio fuori dal bulbo, la mandibola storta” ricorda la sorella. Ancora una volta nessuno sente la necessità di spiegare perché un giovane in buona salute sia morto e soprattutto perché il suo corpo porti i segni di una ferocia inaudita.
A questo punto la vicenda personale diventa questione nazionale. Un banco di prova per questo paese, per dimostrare che la capacità di indignarsi è ancora parte del suo patrimonio, per non fare della morte più brutale una delle tante aberrazioni a cui ci siamo lentamente abituati. I senatori del Partito Democratico pretendono chiarezza dal governo: “La morte di Stefano Cucchi – dichiarano i senatori Roberto Della Seta e Donatella Poretti – il 31enne arrestato a Roma per possesso di droga e morto dopo sei giorni di detenzione, ricorda in qualche modo la drammatica vicenda di Federico Aldovrandi, il ragazzo morto nel 2005 a Ferrara dopo una colluttazione con dei poliziotti che lo stavano arrestando. I motivi che hanno portato alla morte del giovane romano devono essere chiariti nel più breve tempo possibile, facendo luce sui troppi punti oscuri della vicenda. Una persona viene arrestata condotta in carcere e dopo sei giorni in cui viene negato ai familiari il permesso di visitarlo muore per un arresto cardiaco nel reparto carcerario dell’ospedale Pertini, ma dopo aver subito quello che appare quasi certamente come un pestaggio: i familiari riferiscono di aver visto il volto del loro congiunto tumefatto, con la mandibola storta ed un occhio fuori dall’orbita oculare. Se quanto asserito dai familiari di Cucchi corrisponde al vero si tratterebbe inequivocabilmente di percosse fisiche subite quando il soggetto era trattenuto dall’autorità giudiziaria. Per la giustizia di un paese che non deve conoscere pratiche da regimi dittatoriali, e per rispetto nei confronti dei familiari della vittima, e’ indispensabile chiarire rapidamente chi e quando ha inflitto le percosse al giovane, se e’ stata prestata tutta l’assistenza medica necessaria e se non vi siano state omissioni, o peggio, coperture nei riguardi di chi ha causato le lesioni, e forse la morte, del giovane Cucchi. Chiediamo ai ministri Alfano e La Russa se non ritengano necessario avviare un’approfondita indagine su questa tragica vicenda, e di procedere con la massima severita’ nei confronti di chi, all’interno della pubblica amministrazione, si sia reso corresponsabile della morte di un ragazzo di 31 anni”.
Marina Sereni, vicepresidente dei deputati PD ”Gli italiani, tutti, hanno bisogno di avere fiducia nelle forze dell’ordine e nel rispetto della legalita’ da parte di chi e’ chiamato a far si’ che non venga mai violata. La morte di Stefano Cucchi, 31 anni, arrestato per possesso di stupefacenti e restituito cadavere alla sua famiglia dopo otto giorni trascorsi tra carcere e ospedale, ha bisogno di spiegazioni che non vanno soltanto ai suoi parenti o a chi lo conosceva, ma a chi non vuole perdere quella fiducia e quel rispetto verso lo Stato. Mercoledi la presidenza del nostro gruppo ha fatto un’interrogazione nell’aula di Montecitorio ricordando che i genitori del ragazzo non avevano neanche potuto nominare un perito di parte che assistesse all’autopsia. Abbiamo chiesto al ministro Alfano quali urgenti iniziative intendesse assumere per fare piena luce sulle dinamiche che hanno portato all’aggravamento delle sue condizioni fisiche e quindi al decesso. Dalle parole del ministro abbiamo appreso che Stefano avrebbe parlato di una caduta accidentale’. Le foto mostrate ieri dalla famiglia, che non ha potuto vederlo neanche in ospedale, ora sono sotto gli occhi di tutti. Tutti aspettano verita’ sulla morte di un ragazzo di 31 anni. Noi continueremo a chiederla”.
La capogruppo del Pd nella commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, ribadisce: “In assenza di risposte concrete da parte del ministro Alfano, le foto del corpo di Stefano Cucchi sono un inequivocabile atto d’accusa al sistema giustizia italiano. Ma come e’ possibile che un ragazzo che, come dicono i familiari, al momento dell’arresto stava bene, dopo poche ore si possa trovare nelle condizioni che abbiamo visto oggi? Esiste un rapporto relativo alle lesioni e alle contusioni? E poi, chi ha disposto, e per quali ragioni processuali, il divieto di incontrare i familiari? Che cosa o chi si voleva nascondere? Ieri alla Camera il ministro si e’ limitato a dire che seguirà personalmente il caso. Ma oggi, dopo aver visto le foto siamo ancora più convinti che non basta, che servono risposte immediate e non un mero elenco di passaggi cronologici, che hanno il marchio della peggiore burocrazia e non aiutano a ricostruire la verità dei fatti e ad individuare eventuali responsabilità. Chiediamo risposte urgenti: ne va della credibilità delle istituzioni”.
Iv.Gia da www.partitodemocratico.it
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