Neanche a farlo apposta, ieri Franceschini ha incontrato un gruppo di concittadini ferraresi a piazza del Popolo e Bersani, richiesto di un parere nell’ora solenne, ha risposto di aver pensato a certi amici del suo paese, Bettola, provincia di Piacenza. Geografia e malizia si riflettono nei dati della massiccia e prevedibile affluenza di votanti in quella regione. Dallo specchio dell’elezione, al di là dell’ormai risolto agonismo, si ridesta un sospetto: e se il Pd fosse tutta e comunque una faccenda fra emiliani?
E sarà pure una coincidenza fortuita, ma non se ne esce: o vinceva un emiliano o vinceva un emiliano. Lo stesso, anzi di più considerata l’affermazione di Ignazio Marino, vale per chi ha perso. La Bassa trionfa, dunque, e insieme la Bassa è sconfitta.
Da Piacenza a Ferrara sono 190 chilometri, ma a scivolare sull’acqua del grande fiume la distanza si accorcia. “Nelle vene quell’acqua d’argento” s’intitola il primo romanzo di Franceschini. Piuttosto che fluviale, Bersani è appenninico, ma ha casa pur sempre a Piacenza, città di argini e ponti e antichi mestieri legati al Po. E va bene: alle primarie ha vinto Bersani. Nonostante tutto la politica resta una causa seria, per cui il successo dell’uomo di Bettola avrà la sua ricaduta sul nascente partito, la politica delle alleanze, il tipo di opposizione.
Ma se ci si abbandona per un attimo al più bieco campanilismo i ferraresi, aristocratici come sono, si ritengono di molto superiori ai piacentini; mentre questi ultimi, oltre a negare qualsiasi supremazia, li ritengono da secoli extra-emiliani, mezzi veneti. Ha scritto il ferrarese Sgarbi che appena eletto segretario del Pd, Franceschini dava l’impressione di voler trattare l’Italia come una grande Ferrara. Così come nel suo “Quel gran pezzo dell’Emilia” (Mondadori, 2004) Edmondo Berselli designa Bersani “il rosso emiliano forse più rappresentativo… Uno che parla come mangia, e di solito mangia benissimo, ed è capace di tradurre concetti economici complicati in formule che capiscono tutti anche in provincia”.
E si nuovo si perdoni qui l’abbassamento, sebbene gastronomicamente calcolato: ma oltre allo scontatissimo match fra un ex democristiano e un ex comunista, un po’ è stato anche un derby di comuni vocali e sibilo di consonanti fra la Salama da sugo di Ferrara e la Coppa piacentina, entrambi eccelsi insaccati, da consumarsi preferibilmente tra nebbie dense, magnifiche piazze monumentali, vecchie biciclette silenziose, ex case del popolo, officine meccaniche di prim’ordine, benessere diffuso, dinamismo economico e un grado di civiltà parecchio superiore al resto d’Italia.
Ma in questo giorno non si capisce se l’Emilia rossa su cui Togliatti calò il cappello del Pci fin dal 1946, e anche l’Emilia bianca, come la illustrarono con le loro bellissime vite, con le loro spericolate opere, con la loro fede in Dio don Dossetti e don Mazzolari, non sia l’unica culla possibile del nuovo partito. La fonte di un riformismo pragmatico e gioviale; la sorgente vera di quelle due fertili tradizioni fattesi culture politiche e in fondo sopravvissute al big bang delle ideologie e dei partiti di massa della Prima Repubblica.
Vedi il vincitore, Bersani, e avverti una solidità, una compostezza, un allegro buonsenso che trascende la macchietta del comunista tortellone. Però viene pure da chiedersi se non sia oggi, questa stessa Emilia di leader vincitori e vinti alle primarie del 2009, una ridotta, una gabbia, un rifugio, l’ultimo lembo d’Italia rimasto alle forze del progresso. Un’isola da difendere con le unghie e con i denti dalla pressione del centrodestra, dallo sfondamento leghista di cui si colgono già i primi segni.
Un partito regionale di epigoni, per giunta. Una eroica miniatura residuale. O forse l’indispensabile risorsa per ogni rilancio. Comunque una piccola grande realtà, da conservare nell’attesa dell’ennesimo inizio. Al prenzéppi l’è la meté del fén, come si dice da quelle parti: chi ben comincia è a metà dell’impresa.
La Repubblica 26.10.09