Si conclude qui oggi, a Marzabotto, questo mio viaggio attraverso l’Italia. Dieci tappe per incontrare donne e uomini del nostro Paese. I loro problemi, le loro speranze. Sono partito dalla Stazione Centrale Milano, dove ho incontrato il popolo dei volontari: un esercito di costruttori del bene comune. Sono stato a Genova. In quel porto da dove sono partiti milioni di poveri emigranti che cercavano un futuro senza fame e miseria, lì ho parlato ai nuovi italiani. Ho visto nei loro occhi la stessa identica luce che ho guardato tante volte nelle vecchie foto ingiallite dei nostri nonni, quando partivano nella terza classe dei transatlantici per raggiungere il Nuovomondo. Anche per loro, anche per conservare la memoria dei nostri 27 milioni di emigranti ho chiesto a un nuovo italiano, Jean Leonard Tuoadì, di essere il mio vicesegretario. Sono stato a Napoli. Dove c’erano gli insegnanti, coloro ai quali mettiamo in mano il futuro dei nostri figli ma ai quali la politica toglie risorse e dignità. A Bra ho parlato della qualità italiana, dei nostri talenti. Di quello che ci rende unici nel mondo. Poi a Cosenza. Lì, nell’Università della Calabria, c’erano i ragazzi del Sud. Abbiamo parlato del loro futuro. Di un Mezzogiorno che cerca riscatto. Della necessità di ribellarsi. Alla mafia e alla criminalità. E ho dedicato quel discorso a uno di loro, a un ragazzo del sud, a Roberto Saviano. Poi ho incontrato i lavoratori, a Prato, e gli imprenditori, a Vicenza in due fabbriche: e ho promesso e spiegato loro che per noi sono importanti in misura eguale. Con loro vogliamo costruire un patto per costruire insieme un futuro che sappia riconoscere il merito, l’impegno e il valore di chi rischia e produce. Perché solo insieme usciremo dalla crisi. A Bari ho voluto parlare ai nonni dei nostri figli, e a Palermo alle donne italiane, alle quali noi uomini dobbiamo chiedere scusa. Per averle costrette a subire modelli culturali e sociali nei quali non c’è lo spazio che ci dovrebbe essere per l’altra metà del mondo. E poi oggi sono qui. A parlare ai liberi.
A parlare alle donne e agli uomini che vogliono vivere la loro libertà. Mi sembrava che fosse giusto concludere così. Per questo sono tornato a Marzabotto. Questo è un luogo di memoria. Di una memoria viva e ancora sofferente. Qui a Marzabotto ricordare significa testimoniare un impegno che riguarda inevitabilmente anche il futuro. Perché senza quell’impegno c’è il rischio che tragedie tanto atroci possano tornare a ripetersi. Testimoniare significa esprimere gratitudine a chi ha saputo resistere all’orrore. A chi ha combattuto per la libertà e la democrazia. A chi ci ha donato quella libertà perché la custodissimo e la facessimo vivere. A chi ci ha insegnato che, generazione dopo generazione, ci sono valori e responsabilità che ci tengono uniti. E che quei valori e quelle responsabilità rappresentano il patrimonio che ci fa essere una comunità coesa e forte. Una patria. Per questo sono venuto a Marzabotto. Per lo stesso motivo per cui otto mesi fa ho deciso di iniziare la mia avventura di segretario del Partito democratico giurando sulla Costituzione di mio padre, a Ferrara. Quello per me non è stato un gesto simbolico. E’ stato un giuramento vero di fedeltà alla Costituzione. Il giuramento di difenderla. Per questo, se domani sarò rieletto Segretario, come si fa all’inizio di ogni nuovo mandato, giurerò di nuovo sulla Costituzione. In un altro luogo e in mani più giovani di quelle di un giovane partigiano di 60 anni fa. Ma giurerò. Perché nella Costituzione c’è scritta la nostra libertà. Da Ferrara a Marzabotto la strada non è poi così lunga. In mezzo ci ho messo l’Italia. In otto mesi ho girato in lungo e in largo. Sono stato in tantissime città e comuni. Ho incontrato tantissime persone. Ho incontrato in ognuno di questi posti il nostro popolo. Il popolo democratico. Quel popolo che c’era prima di noi, e che aspettava questo partito da tanto tempo.
Quelle donne e quegli uomini che la sintesi, quella nuova cultura politica di cui tanti parlano come se fosse irraggiungibile, l’hanno già fatta dentro di loro. E la vivono e la testimoniano ogni giorno. Nel loro essere democratici. Perché credono nella giustizia e nell’uguaglianza. Perché credono nella libertà come qualcosa che non esclude ma coinvolge. Una libertà che senza gli altri non ha sapore, né senso. Democratici con le loro storie e le loro esperienze. E anche con la loro cultura politica e la loro identità, spesso diverse le une dalle altre. Ma uniti dallo stesso obiettivo: costruire un futuro migliore. Per questo quando me lo hanno chiesto ho accettato di fare il segretario del Partito democratico. Per questo popolo. Domani questo impegno si conclude e la parola torna a quel popolo, a quelle donne e a quegli uomini. Le primarie decideranno chi sarà il nuovo segretario del nostro partito. Sarà, ancora una volta, una straordinaria prova di democrazia. Ma anche la dimostrazione concreta che noi ci siamo, che abbiamo superato la crisi, che siamo più forti dei nostri errori. Più forti dei dubbi di chi immagina la nostra storia come un eterno ritorno al punto di partenza. Più forti della nostra ricorrente vocazione all’autolesionismo. Più forti di quei profeti di sventura che hanno cominciato ad annunciare il nostro declino poche ore dopo la nostra nascita. Più forti di chi parla male di noi perché non ha il coraggio di ammettere di essersi arreso alla corrente. Più forti di chi denigrandoci nasconde in realtà la sua paura, i suoi interessi, i suoi privilegi. Più forti dei conservatori. E questa forza della nostra gente sarà anche la forza di chi tra noi sarà eletto segretario. Sarà la sua dote più preziosa. La sua libertà. Io mi sono ricandidato con questo spirito e con questa volontà.
Essere libero per poter cambiare. E allora, parlando ai liberi oggi, parlo prima di tutto a me stesso. All’impegno esigente che sento di dover assumere in nome di quella di responsabilità. Occorre cambiare. Cambiare l’Italia per farne un Paese migliore. Cambiare la politica. E dunque cambiare noi stessi. Non è tempo di compromessi. Di aggiustamenti. Di piccoli calcoli. Di convenienze meschine. Chi ricerca il potere solo per sopravvivere sì è già condannato a perdere. E invece il nostro partito, il nostro sogno, hanno un senso solo se sapremo spendere ogni goccia della nostra fatica per cambiare. Dovunque sono stato, con chiunque abbia parlato, ho ricavato questa convinzione: l’idea di un Paese che si sta progressivamente chiudendo impaurito su se stesso. Un paese bloccato. Ostaggio di ingiustizie e privilegi. Una società che ruba il futuro ai giovani che valgono, che meritano, che hanno talento e che lo regala a quelli che non meritano ma hanno la fortuna di essere cresciuti al riparo di protezioni e raccomandazioni, questa non è una società giusta. Un Paese in cui i figli dei ricchi saranno ricchi e quelli dei poveri resteranno poveri non è un Paese giusto. E non è un Paese che tutela la libertà. La libertà di esprimere le proprie potenzialità. La libertà di essere davvero tutti uguali per le opportunità che si hanno. La libertà di avere tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri. Parlo di libertà perché dobbiamo riconoscere che una delle responsabilità più gravi che abbiamo, nel nostro campo, è di aver abbandonato questo valore nelle mani della destra. E la destra berlusconiana ha preso questo tema e ne ha fatto una caricatura. La libertà è diventata arbitrio dei più forti contro i più deboli.
E’ stata chiusa nel recinto dell’individualismo, ed è diventata l’arma da giocare contro gli altri. Libertà di fare quello che serve a tutelare solo i miei interessi, da coltivare nel privato, fuori da ogni spazio pubblico. Libertà che coincide con la ricchezza e che presuppone che tutto si possa comprare. Anche il consenso. Anche il potere. La libertà assolutizzata, che non riconosce il limite del potere. E che quel potere esercita negando ogni forma di pluralismo e di equilibrio istituzionale. Libertà dei furbi a danno degli onesti. Tanto c’è sempre un condono, uno scudo, una sanatoria. Lo vediamo in questo tempo di crisi: la libertà è ridotta all’unica legge che questa destra di governo conosce: il “si salvi chi può”. E a salvarsi, in una logica conflittuale che mette tutti contro tutti, sono sempre gli stessi. Quelli, appunto, che vivono nella cittadella blindata delle protezioni e dei privilegi tramandati da generazione in generazione. Noi abbiamo un’altra idea della libertà. Un’idea che non può prescindere dalla responsabilità. Dalla comunità. Dal limite. Dalle regole. Ci sono i nostri diritti, ma ci sono, inseparabili, anche i nostri doveri. C’è una libertà che deve corrispondere al principio del pieno sviluppo di ogni persona. Cioè all’idea dell’uguale diritto di ogni individuo di condurre una vita libera e dignitosa. Gli esseri umani nascono e devono poter vivere liberi e uguali. Liberi. Liberi di credere, di pregare, di avere una fede, senza che quel credere diventi motivo di divisione o di scontro. Liberi di essere educati da una scuola che funzioni. Liberi di poter studiare in università in cui poter mettere a frutto il proprio talento, di poter puntare all’eccellenza anche in Italia senza essere costretti a cercarla per forza all’estero.
Liberi di fare ricerca e, anche qui, di non essere spinti ad emigrare per vedere valorizzata la propria intelligenza. Liberi di educare, in un sistema che valorizzi il pluralismo ma riconosca nella Costituzione il pilastro di una comune cittadinanza. Liberi di informare, senza dover subire minacce, pressioni, intimidazioni. Liberi di partecipare. E di “associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, è l’articolo 49 della Costituzione, che parla della politica, parla di noi. Liberi di parlare. Cercando di farsi sentire in una realtà che riconosce e ascolta soltanto quello che appare dentro lo schermo di un televisore. Liberi di lavorare. Se è vero che è sul lavoro che è fondata la nostra repubblica. Liberi di fare impresa, senza dover calcolare nei rischi, anche la zavorra di una burocrazia nemica. O l’inefficienza di istituzioni pubbliche che non fanno il loro dovere e rendono ostile il volto dello stato. Liberi di sposarsi e fare una famiglia, perché quel lavoro non è il miraggio di una stagione. Liberi di essere anziani senza dover temere la solitudine. Liberi di vivere in un ambiente sano, non inquinato, non cementificato. Liberi di vivere e di non essere uccisi dall’ingordigia di chi per denaro costruisce dove non si dovrebbe. Liberi di vivere perché le case, le scuole, gli asili, dove gli ospedali sono costruiti con il ferro e il cemento e non con la terra e la sabbia. Liberi di vivere e di non morire perché la sanità pubblica non funziona. Perché un medico è specialista di tessere. Perché un primario è un commissario politico. Liberi di vivere il proprio orientamento sessuale senza doversi giustificare con nessuno. Liberi di poter girare di sera in una grande città senza temere di essere aggrediti o insultati o discriminati per motivi sessuali, razziali o religiosi. Liberi di essere cittadini italiani, anche se si è stranieri, ma si è scelta l’Italia e se ne rispettano le leggi, la cultura, le regole. Liberi di essere cittadini italiani se è su questo suolo che si è nati.
Liberi di scegliere dove vivere, e non essere costretti ad emigrare per cercare il proprio futuro. Libere di essere donne e di non essere usate, sfruttate, offese, umiliate. Anche dalla politica. Liberi di essere giovani e di non dover aver paura del futuro. Ecco la libertà che vogliamo affermare. Liberi di. Ma non solo, secondo una vecchia lezione. Anche liberi da. Liberi dalle mafie. Dall’illegalità che corrode, corrompe, soffoca pezzi interi di Italia. Liberi da modelli culturali e da stili di vita che avviliscono la dignità delle persone e che misurano il valore e il successo solo sul denaro posseduto e ostentato. Liberi da un consumismo esasperato che sta divorando se stesso e i beni della terra. Liberi da questa deriva che trasforma il cittadino solo in cliente e consumatore. Liberi dalla povertà, che non ha voce e viene nascosta e dimenticata con il suo carico di disperazione. Liberi dal razzismo, dall’omofobia, dalla paura delle diversità. Liberi dall’ignoranza e dall’egoismo. Liberi dalla retorica delle piccole patrie di chi ha solo paura del mondo. Liberi da rigurgiti nazionalisti di chi non ha mai creduto all’Europa. Liberi dai revisionisti che riscrivono la storia e vorrebbero distinguere i partigiani buoni da quelli cattivi. Liberi da chi vorrebbe fare a pezzi la Costituzione. Liberi. E anche noi, noi democratici, dobbiamo recuperare il senso di questa nostra libertà come l’anima della nostra avventura. Anche noi dobbiamo essere liberi. Liberi dai condizionamenti del passato. Dalle nostalgie. Dalle nostre vecchie appartenenze. Dalle correnti. Dai piccoli calcoli di potere.
Perché non conta più da dove veniamo ma è molto più importante dove vogliamo andare. Liberi di sperimentare forme nuove del nostro essere partito. Con coraggio. Rischiando il nuovo. E’ proprio questa nostra capacità di rischiare che ci renderà interessanti. Che conquisterà l’attenzione di chi, finora, è rimasto sulla soglia, a guardarci. Perché si vede che la nostra è una storia vera che sarà lunga: lo sanno anche i nostri avversari. Quelli che congressi e primarie non li hanno mai fatti e forse non li faranno mai. Siamo un partito nuovo anche per questa nostro saper essere liberi. Abbiamo discusso tra noi. Ci siamo divisi. Ci siamo contati nei circoli. E domani ci apriamo ancora: ai nostri elettori. Che sono i nostri azionisti. I soli padroni del nostro destino. I nostri militanti, i nostri iscritti, sono oro, una risorsa preziosa da tramandare alle future generazioni. E sono proprio loro, io li ho incontrati nei circoli, che in questi giorni si stanno spaccando la schiena per far venire domani più elettori possibili alle primarie. Perché sanno bene, più di qualche dirigente impaurito, che gli elettori non sono estranei da noi ma sono una parte di noi, che rende il partito più forte. Per questo siamo vivi e vitali. Lo siamo perché nella difficoltà ci siamo ritrovati uniti e convinti delle nostre ragioni. Ho sentito in questi mesi, attorno a me, questa solidarietà, che ha accompagnato la mia libertà. La mia libertà di segretario. Ho mantenuto l’impegno che avevo preso nel momento in cui mi è stato chiesto di guidare il partito in un momento difficile. Ho fatto le scelte che ritenevo necessarie e giuste, senza fare patti con nessuno. Senza accettare accordi sottobanco o compromessi. Molti in questi mesi, mi è capitato molte volte, mi hanno ringraziato per il sacrificio di avere accettato di guidare il partito sette mesi fa, in un momento di grande crisi. Vorrei dirvi che non è stato un sacrificio. E’ stata la più bella esperienza della mia vita politica. A chi ha fin da ragazzo la politica che gli scorre nelle vene, non poteva capitare cosa più bella che essere chiamato a guidare il partito che abbiamo aspettato per anni, il sogno della nostra generazione.
Ed essere chiamati a guidarlo quando tutto sembrava perduto e finito. In questi mesi ho avuto spesso in mente i miei maestri. Quello che mi hanno insegnato ad amare la politica e le persone che sperano nel futuro, che lavorano, che lottano, che soffrono. E mi sono chiesto tante volte, in questi mesi se quello che stavo facendo fosse giusto. Se quei miei maestri avessero condiviso le mie scelte, anche quella di ricandidarmi. Non tocca a me rispondere. Io non mi sono sottratto al compito difficile che mi è stata affidato. E ho cercato di usare tutte le mie energie e le mie capacità. Voglio condividere con tutti quelli che hanno lavorato in questi mesi i risultati positivi del nostro lavoro. E voglio sulle mie spalle, solo sulle mie spalle, ogni responsabilità degli errori che abbiamo commesso. Quello che ho cercato di fare in questi sette mesi è la traccia di quello che cercherò di fare andando avanti. Qualunque sarà il mio ruolo. Nel mio partito. Nel nostro partito. Comunque vada domani. Forse questo è il mio ultimo discorso da segretario. Soltanto voi potrete decidere domani che non sia così. Se mi rieleggerà lotteremo ancora insieme per un futuro diverso. Lotteremo per cambiare tutto. Lotteremo per cambiare noi stessi. Così diceva sempre un parroco di campagna, un antifascista, un intellettuale della mia infinita e meravigliosa pianura, un uomo che amava la politica. Un uomo che era nato sull’argine del mio grande fiume. E sull’argine aveva imparato a camminare diritto con il suo popolo. Sempre qualche passo avanti, come fanno i profeti scomodi. Nel primo numero di “Adesso”, il suo giornale, il giornale che aveva voluto ad ogni costo, anche sfidando l’incomprensione del proprio tempo, Don Primo Mazzolari aveva scritto queste parole: “Rischiamo di morire di prudenza in un mondo che non vuole e non può attendere. Adesso è un atto di coraggio. Adesso, non domani.”
Noi non moriremo di prudenza. Noi vivremo di coraggio. Il coraggio di cambiare tutto in questa Italia che non più attendere. Nessuno ci fermerà. Neanche il potere più forte. Lo dobbiamo alle nostre madri e ai nostri padri. Alle loro fatiche, al loro sangue, al loro sudore. Lo dobbiamo alle nostre figlie e ai nostri figli. Alle loro speranze in un futuro da vivere liberi. Adesso è il nostro tempo, il tempo della nostra sfida. Non è domani. E’ adesso.
Marzabotto (Bo) 24 Ottobre 2009
Pubblicato il 24 Ottobre 2009