L’avvertimento è arrivato anche per lui, il superministro dell’Economia. Due fondi, uno su «Il Giornale», l’altro su «Libero», che ieri «garbatamente » chiedevano il taglio delle tasse. Poi, il messaggio del premier agli artigiani: taglieremo gradualmentel’Irap fino alla sua soppressione. Si parla di fisco, ma il gioco è tutto politico. Giulio Tremonti ha commesso lo stesso «peccato» del suo «gemello antagonista» Gianfranco Fini: ha giocato in proprio. Per di più proprio mentre il lodo Alfano veniva picconato dalla Consulta, lasciando scoperti i nervi (e le cause giudiziarie) del premier.
Ha avuto l’ardire, il fiscalista di Sondrio abituato a menare bordate (sui giornali) su banchieri, petrolieri, poteri forti, di pensare al «dopo» (dopo Berlusconi?) in un convegno Aspen. Poi, la battuta sul posto fisso. Tanto per guadagnarsi qualche titolo. Troppo. Per questo deve pagare: il killeraggio è affidato sempre al sistema mediatico di famiglia. Sostenuto, poi, dalla raffica aggressiva delle legioni di centrodestra: unite a testuggine. Tutti con il capo. I ministri in una unica schiera: Scajola, Brunetta, persino Sacconi, finora più vicino al titolare del Tesoro. Nessuno si è fatto indietro. Ieri sono intervenuti tutti a chiedere meno Irap.
Tremonti non dev’essersi mai sentito così solo. O forse sì, qualcosa di analogo deve averlo vissuto sei anni fa, quando la stessa coalizione lo defenestrò da Via Venti Settembre. Quella volta c’era Fini a chiedergli conto dei conti. «I numeri non tornano», gli disse, chiedendo di aprire i cordoni della borsa per i suoi parlamentari. Oggi sembra quasi un remake: i parlamentari scalpitano per nuove risorse, tanto che circolerebbe un documento economico alternativo alla linea Tremonti. Il Sud è in rivolta per il taglio agli stanziamenti. Raffaele Fitto si dissocia dalla banca del Sud, Stefania Prestigiacomo scalpita. E Fini è sempre lì, a ritagliarsi un profilo autonomo. Ma stavolta l’ex leader di An e il ministro si ritrovano legati da un parallelismo geometrico.
Tutti e due cercano l’autonomia, tutti e due tentano di svincolarsi, di profilare un’alternativa al pensiero unico del berlusconismo. Uno parla a Roma, al mondo del pubblico impiego, all’area conservatrice cattolica che teme gli eccessi leghisti. L’altro è il dominus dell’impresa del nord, quella piccola fatta di capannoni affilati lungo le statali venete e di piccole aziende artigiane. I duepoli dell’Italia che tra poco si confronteranno nelle regionali. Sarà in quell’occasione che la destra verificherà quale sarà ancora il suo baricentro. Ed è in quell’occasione che Tremonti si giocherà tutto: la vittoria o la sconfitta finale. Una scommessa estrema. Se l’asse portante della coalizione resterà sotto le alpi, il ministro avrà vinto tutto, rispetto al suo antagonista Fini. Se non sarà così, stavolta rischia davvero una seconda defenestrazione. La coalizione non potrà più tollerare i suoi «no», il suo immobilismo nei confronti della crisi. Nel frattempo però è sempre Berlusconi a dare le carte al tavolo. È questo che unisce Fini e Tremonti a doppio filo. Sono irrimediabilmente marionette nelle mani del leader miliardario. «Chi oggi è stato per il centrodestra la frontiera e il punto di ancoraggio del sistema produttivo – osserva Matteo Colaninno – per effetto del pensiero unico del berlusconismo rischia di essere travolto e disarcionato ». Il destino è impressionante: non è dato un secondo, né un terzo. Nel mondo del premier esiste solo il primo. Da un giorno all’altro, con un fondo di Maurizio Belpietro o ordinato da Vittorio Feltri, si finisce fuori dalla stanza dei bottoni. Anche se c’è la Lega a fare da garante politico. Anche se si governano i tecnici dell’economia. Non basta.
L’Unità 23.10.09