È davvero difficile seguire la politica su scuola, università e ricerca in questo Paese. Miriadi di provvedimenti più o meno mirabolanti vengono continuamente annunciati a mezzo stampa. I comunicati sono infarciti con parole oggi di moda come merito, valutazione, trasparenza, competizione. Il successivo passaggio dalle parole ai fatti, quando non ha tempi biblici, si traduce in atti manchevoli se non dannosi.
È successo con i precari della scuola, dove un regolamento ministeriale in contrasto con una sentenza del TAR del Lazio rischia di gettare nel caos le graduatorie degli insegnanti con ripercussioni sull’anno scolastico appena avviato. È successo con i concorsi per il reclutamento dei docenti universitari, bloccati per più di un anno, cambiando le regole di costituzione delle commissioni a bandi già chiusi. È successo, cosa ancora più grave, con il taglio indiscriminato dei finanziamenti alle università. Succede in questi giorni con l’annuncio di un giro di vite sull’accreditamento dei titoli rilasciati dalle Università Telematiche. È solo un annuncio. Ma non era stata la ministra Moratti, con la sua fiducia un po’ sospetta nelle nuove tecnologie, ad aprire la stura alla proliferazione di queste (pseudo)università? E non era stato il ministro Mussi a bloccare l’accreditamento di alcuni di questi atenei denunciandone l’eccessiva proliferazione? Vedremo in questo caso quando alle parole seguiranno quali fatti, sperando che questi “anco tardi a venir non siano gravi”.
Due aspetti stupiscono in questo modo di procedere. Il primo riguarda l’assenza di un coinvolgimento di coloro che operano nella scuola, nell’università e negli enti di ricerca, e la contestuale mancanza di una vera interazione con le commissioni parlamentari che istruiscono gli interventi legislativi su formazione e ricerca. In queste ultime la ministra Gelmini si reca di rado, e quando lo fa si comporta come se avesse davanti dei giornalisti: illustra cioè il suo “comunicato stampa” senza prestarsi a una vera discussione. Il secondo aspetto stupefacente è che anche chi ha a cuore le sorti della formazione e della ricerca del nostro Paese sembra accettare i perimetri segnati dalle tecniche comunicative del Governo. E così non si pone abbastanza l’accento sul fatto che l’investimento in formazione e ricerca nel nostro Paese è tra i più bassi d’Europa. E neppure sul fatto che si deve smettere di parlare di riforme serie a costo zero. E neppure che a rendere migliore il sistema universitario non è una semplice contabilità di crediti formativi, ore di insegnamento, numero di studenti in rapporto ai docenti, ecc. E che bisogna fare un’attenta valutazione dell’importanza dei corsi di laurea, perché non è detto che un corso di laurea oggi poco di moda (e quindi con pochi studenti) sia meno importante per il futuro del Paese di un corso di laurea oggi di moda (e quindi con tanti studenti). Si fanno invece proposte come “facciamo cassa evitando due anni di fuori ruolo”. Per non parlare di chi, più realista del re, propone riforme a costo zero come i test di ingresso nazionali ai corsi di laurea. L’intento, quanto mai egregio, dovrebbe essere quello di permettere agli studenti bravi, o comunque in alto in graduatoria, di scegliere l’Ateneo migliore in cui studiare. Ma il vero problema nel nostro Paese non è quello di poter scegliere un Ateneo, ma dei costi della mobilità in assenza di infrastrutture che garantiscano il diritto allo studio. Realizzarle però costa.
L’Unità, 22 ottobre 2009
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