Come il leggendario Leonard Zelig di Woody Allen, Silvio Berlusconi torna per un giorno presidente-operaio, e fa improvvisamente sua l´«apologia del posto fisso» azzardata il giorno prima da Giulio Tremonti. È il principio fondativo del populismo autoritario: nulla di ciò che interroga e investe il rapporto messianico con le “masse” deve sfuggire al dominio e al verbo del capo. Anche a costo di produrre solo demagogia, condizione fisiologica per il populista, a qualunque latitudine si trovi a governare.
Ma quando l´identificazione mimetica si spinge a coprire tutto e il contrario di tutto, fino a generare forme di vera e propria “apostasia”, allora si sfocia in una dimensione diversa, chiaramente patologica. È quello che succede oggi, al governo del Paese. La sortita del ministro dell´Economia, che dopo anni di esaltazione del lavoro flessibile riscopre le virtù sociali di quello stabile, è un caso da manuale. Ha due significati di fondo.
1) Il primo è un fattuale significato politico. È vero che questo clamoroso “ripudio” del liberismo applicato ai rapporti di lavoro è in parte coerente con l´evoluzione anti-mercatista del Tremonti di quest´ultimo anno e mezzo. Ma è altrettanto vero che, se all´ultimo elogio del posto fisso si aggiungono la crociata contro i banchieri privati, le “dodici tavole” contro gli speculatori mondiali, il prefetto che controlla le banche, la rievocazione delle vecchie “Bin” (gli istituti misti “di interesse nazionale”), la riedizione della Cassa per il Mezzogiorno, allora non siamo più a Colbert. Siamo al Leviatano di Hobbes. Forse siamo già in pieno Gosplan. Il superministro, partito dalla brillante critica agli eredi del Pci disinvoltamente transitati «from Marx to market», compie il passaggio inverso: va lui, direttamente, «from market to Marx». Ma quando il “revisionismo” intellettuale si spinge fino al punto di rinnegare tutti i capisaldi della sedicente “filosofia” modernista e anti-statalista in nome della quale il Pdl ha stravinto le elezioni, allora c´è un problema. Può darsi che il diabolico Giulio “spiazzi” anche il centrosinistra, come qualcuno ha detto. Ma è più probabile che, nel frattempo, disorienti prima di tutto il centrodestra.
Non è un caso, ma sui temi dell´economia capita a Tremonti quello che sui temi sociali capita a Fini. Parlano di una destra radicalmente “altra” da quella che Berlusconi e i suoi fedelissimi hanno rappresentato e rappresentano nella storia di questi ultimi 15 anni. Perché lo fanno? Il peggio che si possa dire (e che probabilmente il Cavaliere paventa) è che si preparino a un dopo Berlusconi nel quale maggioranza e opposizione dovranno ricominciare a parlare un linguaggio comune. Il meglio che si possa pensare (e che palesemente i fatti dimostrano) è che questo centrodestra incarnato dall´uomo solo al comando manifesta un pauroso deficit di identità politica. Il “blocco sociale” esiste, è vasto, radicato nella società e probabilmente ancora maggioritario nel Paese. Ma ancora una volta è tenuto insieme dagli interessi, molto più che da un progetto culturale definito e da un impianto valoriale condiviso.
2) Il secondo è un potenziale significato economico. Sarebbe sbagliato liquidare le parole di Tremonti solo come il banale inizio della campagna elettorale per le regionali. Se la riflessione del ministro non è stata solo una sparata fatta per prendere un po´ più di voti, e se il presidente del Consiglio è convinto davvero che quella posizione sia giusta, allora la sfida va raccolta e rilanciata. Senza rifugiarsi nel comodo passatismo anacronistico di certa sinistra radicale, che adesso chiede «un decreto legge per bloccare tutti i licenziamenti nel settore privato», neanche fossimo in Unione Sovietica e dovessimo passare «dalla Nep all´economia di guerra». Ma cercando, ancora una volta, di scavalcare questo centrodestra sul difficile terreno del riformismo. Purtroppo nessuna economia, nemmeno quella pianificata, può garantire il posto di lavoro a tutti.
Ma signori del governo: credete davvero che in questi anni si sia ecceduto nella flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, e che la nuova “variabile indipendente” del sistema, invece del salario, sia diventato il precario? Se la risposta è sì, allora aprite subito un tavolo con le parti sociali. Si deve riformare (senza buttarla tutta alle ortiche) la famosa legge 30, che una destra settaria e ideologica ha voluto intestare a Marco Biagi, mentre il piano del giuslavorista assassinato dalle Br era ben altro. Si deve ripensare la struttura dei contratti collettivi, per modificare le regole di ingresso nel mercato del lavoro e avvicinare quanto più possibile le tutele tra chi ha un contratto permanente e chi ha un contratto temporaneo. Ci sono già diverse proposte sul tappeto: dal contratto unico di Tito Boeri al piano Flexsecurity di Pietro Ichino. Se ne discuta, senza pregiudizi. Infine si deve accompagnare, a quella modica ma necessaria quota di flessibilità che il mercato del lavoro deve comunque conservare, la grande riforma degli ammortizzatori sociali che proprio Biagi sognava, a corredo della sua proposta. Per evitare, come ha detto il governatore della Banca d´Italia Draghi, che ben 1 milione 200 mila lavoratori dipendenti si ritrovino senza alcuna indennità se perdono il posto, che ben 450 mila para-subordinati siano già oggi privi di alcun sussidio, e che un disoccupato su 5 sia tuttora scoperto dal sistema di protezione sociale. E qui sul tappeto non c´è proprio niente, se non le chiacchiere di Sacconi che promette miliardi di cui nessuno sa più la provenienza, e Brunetta che ripete «il nostro è il miglior sistema di Welfare del mondo».
Eppure, proprio questo sarebbe il campo per una magnifica battaglia di riforme. Servirebbero un governo capace, una destra responsabile, una sinistra consapevole, una Confindustria lungimirante, un sindacato coraggioso. Ma c´è una traccia di tutto questo, nell´Italia di oggi?
La Repubblica, 21 ottobre 2009