Elogio della Costituzione, del posto fisso, dell’Inps e pure del nostro sistema di welfare. In nemmeno dieci minuti di intervento il ministro all’Economia Giulio Tremonti in nuova versione statista fa piazza pulita di quindici anni di berlusconismo e prende a picconate il suo stesso governo. «Non credo che la mobilità sia di per sè un valore – attacca – È il posto fisso a dare la possibilità di fare un progetto di vita, la base della stabilità sociale, su cui programmare la formazione di una famiglia, l’acquisto di una casa». Sull’analisi di Tremonti pesa, e parecchio, la tempesta della crisi: «Un conto è avere un posto in un contesto di welfare come quello europeo, un conto è avere uno stipendio senza sanità e servizi – prosegue – Negli Stati Uniti i fondi pensione dipendono dall’andamento di Wall Street, e se le cose vanno male ti ritrovi a mangiare kit kat in una roulotte e neghi la scuola ai tuoi figli». L’AFFONDO Già così, visto che a Berlusconi la «pigrizia del posto fisso» (parole sue) non è mai piaciuta, a pensare male si potrebbe azzardare che Tremonti stia lanciando l’affondo ad un premier sempre più in difficoltà. Ma diventa ancora più chiaro quando passa alla Costituzione, «ancora molto valida nei principi, anche se poco applicata »,ammirata anche perchè «sintesi delle culture cattolica, comunista e liberale». Un passaggio, questo sulla Costituzione, che gli serve anche per tornare ad attaccare le banche: «Si è organizzato un sistema che ha sfavorito i titoli di proprietà e favorito i titoli di debito, un criterio per cui la grande proprietà industriale doveva in qualche modo essere controllata dal sistema bancario. La Costituzione diceva ben altro (favorisce la proprietà e l’azionariato popolare, ndr), e credo che un ritorno ad essa ci possa portare a concrete applicazioni ». UN ESERCITO DI PRECARI Per rimescolare le carte di palazzo Chigi, Tremonti sceglie un palco inusuale, il convegno organizzato dalla Banca Popolare di Milano sulla partecipazione dei lavoratori nell’impresa e nell’azionariato. Al tavolo, infatti, siedono i segretari di Cgil, Cisl e Uil, Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, oltre all’ex ministro Tiziano Treu. Lui, guest star, arriva per ultimo, parla alla fine, vola alto e spiazza tutti. Poi si dilegua senza aggiungere una parola, lasciando dietro di sè un’ondata di commenti e di polemiche. Tanto da rendere necessaria una nota del ministero in serata: «Ha espresso a voce idee scritte negli anni passati». «La difesa del posto fisso? Chiedete a Confindustria», dice ironico Epifani. Mentre per Angeletti, «Tremonti parla come un iscritto alla Uil» e per Bonanni «chi è precario o flessibile deve essere pagato di più e avere più tutele degli altri». I numeri che dovrebbero intristire Tremonti li dà il Nidil-Cgil: ci sono circa 3,6 milioni di precari tra contratti a termine (2,2 milioni), rapporti di somministrazione (circa 600mila) e parasubordinati (850mila, atipici).
L’Unità, 20 ottobre 2009
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Segnaliamo sull’argomento anche questi articoli
“L’esercito dei lavoratori instabili”, di Luisa Grion
ROMA – Oggi sì, domani chissà, con un lavoro instabile che spesso rende instabile anche la vita. Quello che ieri il ministro Tremonti ha recitato – l’elogio al posto fisso – 3 milioni e 600 mila italiani se lo sognano tutti i giorni. La stragrande maggioranza di loro non ha scelto quel contratto a tempo determinato o quella collaborazione che, in qualche modo, garantisce lo stipendio a fine mese. Non vorrebbe che in fondo al modulo firmato al momento dell’assunzione ci fosse una data di scadenza. Ma al di là dei desideri, trovare un nuovo lavoro a tempo indeterminato resta una rarità, tanto più in tempo di crisi.
I precari in Italia sono tanti, rappresentano il 15 per cento degli occupati, spesso sono giovani, ancora più spesso donne, con un titolo di studio che non supera il diploma. L’unica discriminante che manca è quella territoriale visto che – segnala uno studio dell’Ires-Cgil – la popolazione degli «instabili» è sparpagliata su tutto il territorio con una lieve prevalenza del Nord rispetto al Sud (anche perché nel Mezzogiorno, spesso, si rinuncia a cercare lavoro e si finisce per ingrossare le file degli «inattivi»).
Per il resto l’esercito dei «oggi sì, domani chissà» è composto da un buon 15 per cento di parasubordinati (ovvero titolari di una collaborazione esclusiva o prevalente) e quasi un 20 per cento di dipendenti che il lavoro lo ha perso da meno di un anno ed è alla frenetica ricerca di un nuovo posto. Trovarlo non sarà facile, specialmente per gli over 45 (il 17 per cento ci mette oltre tre anni).
Dal 2004 ad oggi i lavoratori instabili sono aumentati di 700 mila unità, ma la fascia è in continuo movimento, visto che la flessibilità non è solo in uscita, ma anche in entrata. Solo il 23 per cento delle assunzioni effettuate fra il gennaio 2008 e gennaio 2009, precisa una indagine della Uil, si è concretizzata in un contratto a tempo indeterminato. E quando il lavoro è precario fare il salto è un terno al lotto: dei rapporti avviati, segnala lo stesso studio, solo il 3 per cento si stabilizza (al Sud l’1,7) emancipandosi da «un abuso di forme di lavoro deboli».
Quanto all’uscita, se l’azienda deve licenziare, preferisce privarsi del collaboratore a «scadenza» che del lavoratore esperto. Gli ultimi dati Istat (secondo trimestre di quest’anno) segnalano «il forte calo dei dipendenti a termine (229 mila posti) e dei co.co.co (65 mila)». Per questo – spiega Claudio Treves coordinatore delle politiche del lavoro per la Cgil – si può cadere nel «tranello» dell’effetto statistico che vede crescere il peso del lavoro fisso rispetto a quello instabile. «In realtà – commenta – ciò è dovuto solo agli effetti della crisi che si abbattono in maniera più forte proprio sui lavoratori giovani e precari».
Una forte quota di lavoro instabile agisce infatti da moltiplicatore quando il mercato del lavoro è in crisi: lo dimostra la Spagna di Zapatero dove, grazie ad una percentuale di lavoro a tempo determinato superiore al 33 per cento, oggi c’è un tasso di disoccupazione doppio rispetto a quello degli altri paesi europei (il 18 per cento contro una media del 9,5 nei paesi della zona euro).
La Repubblica, 20 ottobre 2009
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““In Italia è flessibile un lavoratore su 10: disoccupati in un anno 229 mila a ‘contratto’”, di Diodato Pirone
ROMA Ma quanti sono i lavoratori senza posto fisso in Italia? Secondo l’Istat (rilevazione diffusa il 22 settembre 2009) sono 2.214.000 su un totale di 23 milioni e 200 mila occupati. In altre parole circa un lavoratore su 10 in Italia è precario o flessibile. A costoro vanno aggiunti 5.875.000 lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, agricoltori, imprenditori, professionisti) fra i quali l’Istat inserisce anche i lavoratori a progetto (gli ex Co.co.co) che secondo varie stime – non Istat – ammontano a più di un milione.
La percentuale più alta di posti fissi si trova, manco a dirlo, dove l’economia è più robusta: nel Nord. Si tratta di 985 mila persone pari all’82% del totale degli occupati. I precari balzano a quota 12,5% nel Sud dove sono 795 mila su 6,3 milioni di lavoratori e si fermano a quota 9% nel Centro dove ammontano a 436 mila su quasi 5 milioni di persone che lavorano. La media complessiva nazionale è del 9,5% al secondo trimestre 2009.
Un dato in fortissimo calo. Già perché un anno prima, nel secondo trimestre 2008, i lavoratori flessibili erano il 10,4%. Dietro le cifre c’è il dramma della disoccupazione poiché la crisi ha morso soprattutto in questo comparto: da giugno dell’anno scorso un lavoratore su 10 fra quelli con contratto a tempo ha perso il proprio posto.
Ecco la fotografia Istat: in un anno l’occupazione è diminuita di 378 mila unità, ma il grosso dei nuovi disoccupati arriva proprio dal comparto dei dipendenti a termine che sono scesi di 229 mila unità ai quali si aggiungono 65 mila collaboratori a progetto e ben 145 mila autonomi (soprattutto artigiani e commercianti con modesto giro d’affari).
A compensare l’ondata di posti persi è stato il leggero aumento dei lavoratori a tempo indeterminato (61.000) dovuto soprattutto alle assunzioni di extracomunitari in attività rifiutate dagli italiani e dalla crescita dei lavoratori italiani con più di 50 anni che trovano sempre più difficile anticipare l’andata in pensione.
Dunque paradossalmente la crisi sta riducendo l’esercito del precariato. Anche perché – sempre secondo l’Istat – assieme all’aumento della disoccupazione è in atto un fenomeno forse persino più pericoloso: lo scoraggiamento. Gli analisti del mercato del lavoro definiscono così quel meccanismo che porta decine di migliaia di persone a smettere di cercare il lavoro. E’ quello che sta accadendo nel Sud dove i disoccupati sono a quota 12% con un aumento di appena lo 0,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Crescita davvero minima considerando la portata della crisi spiegabile però con la drastica diminuzione (-3%) delle persone in cerca d’occupazione.
Secondo molti osservatori di fronte a questi dati non sarà sufficiente limitarsi a finanziare la cassa integrazione che nella maggior parte dei casi riguarda persone conposto fisso.
Forse in futuro occorrerà rivitalizzare canali di flessibilità che hanno consentito a intere generazioni di affacciarsi sul mercato del lavoro prima di trovare un posto fisso.
Non a caso nei 10 anni che vanno dal pacchetto Treu (varato nel 1998 dal primo governo Prodi) alla legge Biagi, l’Italia è stata in grado di creare qualcosa come tre milioni di posti di lavoro.
Il Messaggero, 20 ottobre 2009
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“Il modello decaduto”, di Luciano Gallino
Con le dichiarazioni a favore del posto fisso, ma anche di previdenza e sanità pubblica, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha fissato i punti salienti del programma con cui il centro-sinistra (non la destra) potrebbe presentarsi alle prossime elezioni, quale che sia la loro data.
Non sono dichiarazioni del tutto inedite. A favore del posto fisso e contro la proliferazione del lavoro flessibile Giulio Tremonti si è espresso in varie occasioni negli ultimi due anni. Ma ieri ha collegato l’importanza del posto fisso come «base della società» agli strumenti di protezione delle famiglie, propri dello stato del benessere, quali le pensioni pubbliche e un sistema sanitario nazionale. Ha notato che se le prime dipendono dai centri della finanza, e il secondo non esiste, come avviene in Usa, quando si perde il lavoro si finisce a mangiare cibo per gatti in una roulotte. E addio all’istruzione dei figli. Il punto è che fino a ieri la società americana era proposta non solo dal centro-destra, ma anche da buona parte del centro-sinistra, come l’essenza della modernizzazione, il modello da imitare per riformare il mercato del lavoro, la previdenza, la scuola, la sanità. Ora uno dei più autorevoli membri d’un governo di centro-destra ci dice, in sostanza, che le riforme del mercato del lavoro erano mal concepite; che per fortuna esiste l’Inps; che la possibilità di andare a scuola (anche se lo stesso ministro ne sta riducendo le risorse) da noi per fortuna non dipende dall’occupazione dei genitori, e che faremo bene a tenerci ben stretta la sanità pubblica.
Sono rivendicazioni del nostro modello sociale che, nell’insieme, avremmo voluto sentire formulare più spesso dal centro-sinistra. Ora che un ministro del centro-destra pare averle fatte proprie, il centro-sinistra dovrebbe farsi sentire. Ha dinanzi parecchie strade. Può limitarsi a dire che un ministro non fa primavera: nel governo ce ne sono infatti molti che lo stato sociale lo farebbero a pezzi domani mattina, non foss’altro perché credono che questo sia il fine ultimo del presidente del Consiglio. Può chiedere a Tremonti dov’era e di cosa si occupava nel 2003, quando – essendo lui anche allora ministro dell’Economia – fu approvata la Legge 30 che non introduceva di certo ex novo i lavori flessibili, ma ne moltiplicava le tipologie già presenti grazie al protocollo del 1993 e alle riforme del mercato del lavoro avviate con la legge 196/1997. Per contro, potrebbe provare a prenderlo sul serio. Non nel senso di farsi aiutare da lui a completare il programma per le prossime elezioni. Un’opposizione matura non può sperare soltanto di arrivare al potere per emanare poi le leggi che le aggrada. Può, anzi ovviamente deve, cercare di ottenere dal governo in carica delle leggi migliori dal suo punto di vista.
Si potrebbe quindi chiedere al ministro Tremonti di far seguire i fatti alle impegnative parole che ha ripetutamente profferito a favore del modello sociale italiano ed europeo. Si faccia dunque promotore di una legge che andando al di là della 196/1997 e della 30/2003 ristabilisca il principio per cui il contratto di lavoro dipendente è per definizione a tempo indeterminato, fissando poi un ristretto numero di tipologie contrattuali in deroga da applicare soltanto in casi ben determinati. Se ne gioverebbero non soltanto i lavoratori, ma anche le imprese. Lo si preghi poi di impegnarsi a favore di una discussione seria sul bilancio dell’Inps e dell’Inpdap, i due maggiori enti previdenziali italiani, e di una rigorosa comparazione internazionale della nostra spesa pensionistica pubblica. Ciò allo scopo di mettere in luce (come fanno da anni alcuni dei migliori specialisti italiani, che mi scuseranno se ne taccio il nome) vari aspetti in genere ignorati: che il bilancio dei suddetti enti sta piuttosto bene; che la nostra spesa pensionistica complessiva è allineata con quella dei maggiori paesi Ue; e che, essendo le nostre pensioni tassate come redditi ordinari, mentre in altri paesi sono in gran parte esentasse, i pensionati italiani non pesano affatto, bensì sostengono il bilancio dello stato con un contributo netto annuo dell’ordine di 15-17 miliardi.
Farsi sorpassare a sinistra da un ministro d’un governo di destra non è solo imbarazzante; può far perdere elettori. Si può tuttavia cercar di recuperare terreno chiedendo al ministro con cortese fermezza di mostrare se ha davvero in mano delle carte atte a sostenere le sue dichiarazioni a favore del posto fisso e dello stato sociale.
La Repubblica, 20 ottobre 2009
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“È tutta demagogia Dicono una cosa e poi fanno l’opposto”, di Antonella Rampino
«Demagogia allo stato puro, da parte di un ministro dell’economia che dice il contrario di quello che fa, lancia messaggi populisti per oscurare le carenze della propria azione di governo: invece di lanciare l’ode al posto fisso, Tremonti dovrebbe rinnovare il contratto del pubblico impiego, defiscalizzare gli aumenti dei metalmeccanici…Ha una visione poco sociale e molto socialista».
E’ un fiume in piena Massimo Calearo, l’industriale veneto che siede in Parlamento nei banchi del Pd.
«E chi c’era accanto a Tremonti mentre parlava? I sindacati, infatti ha parlato proprio come uno di loro».
Effettivamente, anche il segretario della Uil Angeletti ha sorriso, “sembra uno dei nostri”…
«Certo. Perché Tremonti è un socialista di quelli come non esistono più: propone la compartecipazione agli utili aziendali. Con grande senso della realtà, oggi tutt’al più si possono compartecipare le perdite. Un po’ come proporre la defiscalizzazione degli straordinari in tempi di cassa integrazione».
Tremonti ha già illustrato il suo colbertismo di sinistra, in un libro che ricevette il plauso di Fausto Bertinotti. Lei come valuta che ieri abbia difeso il posto fisso?
«E’ la proposta di una persona che conosce e prende in considerazioni solo le grandi imprese, che sono pochissime, quando la spina dorsale del Paese è costituita dalle Pmi, che oggi sono in gravissima difficoltà».
Perché, il posto fisso lo garantiscono solo le grandi aziende? Le Pmi dovrebbero crescere, per il bene della competitività…
«Quando si è in difficoltà si fa fatica a crescere. Certo se Tremonti facesse il suo lavoro e si occupasse un po’ meno di Alitalia e un po’ più di noi, qualche speranza ci sarebbe. Serve un’azione combinata».
Sacconi e Brunetta si sono trincerati dietro un no comment.
«In questo governo lavorano l’uno contro l’altro. La Lega spadroneggia, secondo la logica spartitoria dei vertici di Arcore. Questa non è democrazia, vuole che ci sia democrazia e non demagogia economica?».
La Stampa, 20 ottobre 2009
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