attualità

“Chi tocca i fili muore”, di Giuseppe D’Avanzo

Coincidenze. Che volete che siano? Soltanto coincidenze. Poco meno di due settimane fa, viene fuori che il premier è convinto di essere il bersaglio di un complotto internazionale. Vuole scoprire chi tira le fila dell’operazione.

Così chiede aiuto «ai servizi di una potenza amica e non alleata», scrive il Corriere della sera (6 ottobre). Senza giri di parole, Berlusconi implora l’aiutino dell’amico Putin. L’indiscrezione galleggia non smentita per ventiquattro ore. Soltanto quando l’opposizione ne chiede conto con un paio di interrogazioni parlamentari, l’Egoarca salta su e nega tutto, ma la frittata è già fatta. Non sentendogli aprire bocca per un giorno intero, gli uomini del capo si sentono autorizzati in quelle ore a qualche confidenza pericolosa: lui avrebbe chiesto all’amico del Kgb qualche dossier da usare contro i suoi avversari, il capo dello Stato è il primo della lista. Balle, senza dubbio. Come è una coincidenza, soltanto una coincidenza, che il giornale di Berlusconi pubblichi ora un primo dossier delle polizie segrete dell’ex-impero sovietico contro Corrado Augias. Tanto fumo, neppure l’ombra di arrosto in quelle cartacce. Tant’è. Corrado non ha bisogno di essere difeso qui. Lo farà da solo.

Qui interessa ragionare del dispositivo di dominio che Berlusconi ha inaugurato con la politica dello scandalo e sulla necessità, per il premier, dello scandalo come metodo di governo. Detto in altro modo, perché un potere solido nelle alleanze politiche, gratificato da un’imponente maggioranza parlamentare, premiato dal diffuso consenso degli elettori, rinuncia a governare per abbandonarsi a un’aggressione permanente alimentata dalla menzogna?

Le due questioni sono connesse, se si tiene il fuoco sulla menzogna. La menzogna è necessaria a Berlusconi per punire, distruggere e, al tempo stesso, creare. Berlusconi l’ha usata e l’userà a piene mani. Può farlo senza sforzo. Dispone di un agglomerato di potere politico-mediatico-burocratico spaventoso. Non lo utilizza per confutare le ragioni degli avversari o convincere gli altri delle proprie buone ragioni. Lo dispiega per denigrare chi non si conforma, per demolire i perplessi; per punire la reputazione di chi (pochi giornali, qualche testimone) non occulta i “duri fatti”; per screditare la fiducia in chi non si inchina alla sua volontà o convenienza (è accaduto al presidente della Repubblica, al presidente della Camera, ai giudici costituzionali, all’editore, al direttore, al fondatore di questo giornale). È la ragione che, il 3 ottobre, ha spinto centinaia di migliaia di cittadini ad affollare piazza del Popolo in difesa dell’articolo 21 della Costituzione nella convinzione non che, in Italia, non ci sia in assoluto libertà di stampa, ma che sia indispensabile proteggere, come ha detto Roberto Saviano, «la serenità di lavorare, la possibilità di raccontare senza doversi aspettare ritorsioni». Anche chi, ieri, ha mostrato una legittima perplessità per quella protesta, potrà oggi forse convenire che in Italia è sempre più presente e opprimente l’intimidazione per chi si rifiuta di tacere, di dimenticare e omettere; per chi si ostina a smascherare le favole dell’Egoarca lasciando affiorare nella nebulosa “politica narrativa” del Cavaliere la realtà o, più semplicemente, la legge. A costoro è riservata una brutale menzogna e la barbara rappresaglia dei giornali e delle televisioni controllate dal premier. Ne hanno fatto le spese in molti, qualche nome lo abbiamo già fatto (Giorgio Napolitano, Gianfranco Fini, i giudici della Consulta eletti dal Quirinale, Carlo De Benedetti, Ezio Mauro, Eugenio Scalfari). Altri nomi è doveroso ricordare: Veronica Lario, accusata di avere un amante dal Brighella che oggi dirige il giornale del marito; Dino Boffo, direttore dell’Avvenire, umiliato con un documento contraffatto reso pubblico dal giornale dell’Egoarca; Raimondo Mesiano, il giudice civile che ha deciso il risarcimento per la “sentenza Mondadori” comprata dalla Fininvest (inseguito dalle telecamere nascoste di Mediaset, è risultato colpevole di indossare calze turchesi).

Nelle redazioni, in Parlamento, nelle istituzioni c’è oggi la consapevolezza che chi contraddice la “narrazione” dell’Egoarca deve essere pronto a subire una severa lezione perché la sua reputazione sarà minacciata dalla menzogna. Che ha altre due funzioni specifiche nel sistema politico di Berlusconi. Distrugge la trama stessa della realtà; crea una narrazione fantastica che nega eventi, parole e documenti per sostituirli con una scena di cartapesta popolata di verità rovesciate, fantasmi, fumose dicerie, immaginari complotti politici. Così, per stare alle ultime cronache, si deve dire che la Corte costituzionale ha smentito se stessa bocciando la “legge Alfano” (non è vero, dicono schiere di costituzionalisti); che Berlusconi ha subito 106 processi (sono dodici più quattro sospesi). Si deve sostenere che «la sentenza Mondadori è giusta» dimenticando la corruzione del giudice che se l’è lasciata scrivere dai corruttori pagati dalla Fininvest. Si deve dire che nel 1994 il primo governo Berlusconi si sbriciolò per un avviso di garanzia e non per la decisione di Umberto Bossi. Cancellata la realtà, la si può creare come s’inventa una filastrocca ripetendola poi ad infinitum. E dunque: c’è un complotto internazionale di un gruppo editoriale italiano (il gruppo Espresso); c’è l’aggressione di una magistratura politicizzata che vuole distruggere il patrimonio del premier-tycoon; c’è in atto una manovra che vuole espropriare il popolo della sua volontà da parte «della sinistra» e di rappresentanti delle istituzioni che sono «tutti di sinistra». Sul nascondimento della realtà e sulla menzogna Berlusconi costruisce la sua politica che si nutre soltanto di comunicazione e non di azioni e decisioni, tutte risolte nell’annuncio di iniziative che verranno. Condotta esclusivamente sui media e coi media, la politica vuota di Berlusconi, piena soltanto dei suoi privati interessi, deve controllare con pugno di ferro lo spazio mediatico perché è in quel perimetro che è nato, è stato costruito e oggi si deve difendere il suo potere. È questa la ragione che induce il premier a distruggere, a spaventare chi, in quel perimetro, fa il suo lavoro rispettandone la decenza. È questa la ragione che gli suggerisce di non affermare – governando – la legittimità del proprio potere (che peraltro nessuno nega), ma di mostrare come la natura più nascosta di quel potere sia la violenza pura. Un abuso di potere che, sì, colpisce i suoi avversari o critici, ma serve da lezione anche a chi, nel suo schieramento, nel suo esecutivo, vuole essere alleato e consigliere leale e non corifeo e cane fedele.

Quel che abbiamo sotto gli occhi non è, allora, una guerra tra gruppi editoriali né la guerra di un gruppo editoriale contro un governo, come racconta la “narrazione” berlusconiana accettata purtroppo anche da chi vuole essere il sereno custode delle terre di mezzo. Questa banalizzazione, che inventa una «guerra», nasconde la realtà: chi tocca i fili della comunicazione – e quindi della politica e degli interessi dell’Egoarca – mette in gioco la sua reputazione, la sua dignità, il bene più prezioso: il suo buon nome. Bisognerà avere presto molto coraggio, nel mondo dell’informazione, nelle istituzioni, nelle magistrature, per denunciare lo scandalo di una politica che vive di scandali e menzogne.

La Repubblica, 19 ottobre 2009