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«Il silenzio colpevole», di Walter Veltroni

Caro direttore,
un mio amico appassionato di montagna mi ha raccontato che ormai su alcune grandi vette italiane si vede la neve nera. Questa immagine mi torna nella mente guardando il mio Paese oggi. La meraviglia della sua storia, della sua identità, della sua cultura, nitida come la neve. E la pesantezza di uno spirito pubblico, di un senso comune, in cui smarrimento e odio sembrano avere il colore della pece.

«Alla democrazia ghe pensi mi»: è una frase che racconta per intero l’assurdità della condizione politico-istituzionale in cui si trova oggi l’Italia. Così come racconta molto il fatto che, diciassette anni dopo, numerosi indizi fanno pensare alla morte di Paolo Borsellino come alla conseguenza dell’eroico rifiuto di una trattativa tra Stato e mafia.

Eccola, l’istantanea del nostro Paese. Rissosità politica condita da un odio che ha paragoni solo con i momenti più duri degli Anni Settanta e Ottanta.

E immobilità, ripetizione sistematica di diseguaglianze, conservatorismi, illegalità. Tutto questo non può durare sino allo sfinimento del Paese.

«Maggioranza silenziosa». Dalla fine degli Anni Sessanta in America, e subito dopo da quest’altra parte dell’oceano, Italia compresa, è con queste parole, che si descrive la larga parte di cittadini abituata a non partecipare attivamente alla vita politica e a non esprimere opinioni sulle grandi scelte del proprio Paese. È un’espressione che nel tempo ha avuto indubbio successo, che ancora oggi è ampiamente usata e che permette spesso a chi governa di accreditarsi come beneficiario di un consenso popolare a prova di qualunque opposizione.

Io credo che oggi, in questo preciso momento storico, sia però un’altra la definizione che meglio racconta lo spirito diffuso, il clima prevalente, del nostro Paese. In Italia, questa è la mia idea, c’è una «maggioranza civile» che forse non riesce ancora a farsi sentire, visto se non altro il clamore di polemiche e scontri ormai continui e assordanti, ma che certo non è passiva, non è disinteressata, non è rinunciataria. È una maggioranza civile stanca di Berlusconi e delle sue urla, sempre più attonita di fronte ad un presidente del Consiglio che negando alla radice il suo stesso ruolo è in guerra ormai con tutti: con il Capo dello Stato e con i giudici della Corte Costituzionale, con i mezzi di informazione che raccontano quel che non dovrebbero e con i giornali che affermano con il loro lavoro la sacralità di quel diritto che si chiama libertà di stampa, con i sindacati che difendono i diritti dei lavoratori, con l’Unione Europea che ammonisce l’Italia a non scadere in comportamenti inumani nei confronti degli immigrati. È una maggioranza civile stanca anche di un «grillismo» che non a caso, come il «berlusconismo», fa rima con populismo. Stanca pure di un certo «dipietrismo» che troppe volte preferisce la facilità della polemica alla difficoltà della ricerca delle soluzioni.

Non è una maggioranza, nessuno si illuda e nessuno fraintenda, da catalogare nel gioco della composizione e scomposizione di questo o quello schema politico, di questa o quella prospettiva di governo. Per essere chiari, considererei un errore gravissimo ipotesi di governi pasticciati o di grandi coalizioni, che apparirebbero tanto velleitarie quanto inopportune in un Paese che ha invece bisogno di radicali innovazioni, di profonde sfide ai conservatorismi e non di accordi politici al minimo comun denominatore. Non è tempo di «governissimi». È tempo di una sana alternanza di tipo europeo.

È la larga parte della popolazione italiana che vorrebbe un Paese retto semplicemente (anche se dopo un quindicennio sappiamo quanto semplice non sia) da una naturale dialettica democratica: due schieramenti alternativi, in serrata e anche aspra competizione politica, ideale e programmatica, per guadagnare il diritto di governare e il dovere di rispondere a fine legislatura del proprio operato. Dovrebbe essere una cosa scontata? Sì, è vero, e in effetti in ogni grande Paese europeo è così. Ma da noi no. Proprio non riusciamo ad uscire da logiche vecchie e paralizzanti, da conservatorismi, veti e rissosità di diverso tipo e con un solo esito: il male dell’Italia. E la mia paura è che così proseguendo il nostro continuerà ad essere un Paese fermo e terribilmente diseguale, con infrastrutture arretrate e senza mobilità sociale, sempre più diviso fra ricchi e poveri, fra chi paga le tasse e chi no. E se aggiungiamo l’atteggiamento di chi spinge a contrapporre Nord e Sud e un clima di cupa intolleranza e ora di vergognosa omofobia e di violenza, verbale e non solo, che avvolge le nostre città e colpisce i più deboli, gli indifesi, chiunque sia percepito come «altro», ecco emergere il ritratto preoccupante di un’Italia che tende a frammentarsi pericolosamente e che rischia davvero di smarrire se stessa, la sua identità, il suo futuro.

Io ora sono fuori da responsabilità nella vita politica attiva. Ma amo il mio Paese e oggi lo vedo impaurito, sfiduciato, attraversato di nuovo da un clima di odio e contrapposizione che nella storia italiana è spesso sfociato in intolleranza e violenza. Sento perciò che il malessere diffuso che c’è nell’opinione pubblica e che confessano sottovoce molti uomini politici, anche della maggioranza, dovrebbe produrre a breve un sussulto di responsabilità politica e istituzionale, di tutti e di ciascuno. Anche con il coraggio di cercare quella riforma della macchina delle decisioni e delle garanzie che per me costituisce da tempo il cuore dei problemi italiani.

Nella storia di questo Paese quando la democrazia, specie in tempi di insicurezza sociale, si è inceppata, la nazione è sempre precipitata verso avventure pericolose. Per questo i silenzi oggi sono colpevoli. Per questo la speranza, una speranza che ogni persona di buon senso è chiamata a far crescere, vorrei dire ora o mai più, è che il silenzio si rompa definitivamente, che una stagione si chiuda e un’altra se ne apra. Una stagione più civile, nella quale la maggioranza degli italiani potrà finalmente ritrovarsi.

da La Stampa

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