Molte volte mi chiedo quanto tempo e quanta fatica ci vogliano per passare dalle idee, dalle parole, ai fatti. Le idee e le parole che usiamo, anche noi politici, sono quasi sempre quelle del tempo nuovo. Le parole della modernità. Le parole del villaggio globale. Il racconto di quella che oggi si chiama la società liquida. E poi c’è il modo di fare politica. I fatti della politica. I comportamenti, gli schemi mentali. Le barriere che sopravvivono. Qui c’è il ritardo. Parlo della mia parte. Della cultura politica del campo di centro sinistra. Sappiamo che quello che viviamo non è più il tempo delle ideologie, ma sembriamo ancora incastrati, imprigionati sulla soglia che separa quelle dal mondo reale. Sappiamo che non ha più senso un modello classista della società, ma per troppo tempo ci siamo rivolti ai nostri interlocutori nella società come se questi definissero la loro identità, le loro attese e dunque esprimessero il loro voto, in base ad una vecchia appartenenza di classe. Invece è tutto diverso. Oggi se un’idea è buona, se risolve un problema, trova il consenso dell’operaio, come dell’imprenditore, della casalinga come del commerciante. E se un’idea è cattiva viene bocciata da tutti. Questo non vuol dire che non esistano le differenze, i conflitti, gli spartiacque. Anzi. Quello che viviamo a me sembra che si possa definire il tempo del conflitto. Il modello culturale, ma anche economico e politico degli ultimi anni è tutto purtroppo costruito e permeato dell’idea di conflitto. Di una competizione sociale che ha travolto gli argini, che non riconosce più nessun limite e nessuna regola.
La competizione senza regole è stata anche la cifra che ha caratterizzato il volto della globalizzazione. Parlo a voi imprenditori che conoscete bene l’altra faccia della globalizzazione: come si fa a competere con realtà nelle quali il processo produttivo è sottratto ad ogni tipo di vincolo? Realtà in cui non c’è democrazia. Non ci sono regole e limiti allo sfruttamento dei lavoratori. Non ci sono vincoli o tutele sindacali. Dove il costo del lavoro è incomparabilmente inferiore al nostro. Non solo. L’assenza di regole ha travolto anche il mercato. L’economia internazionale. La finanza. La radice della crisi che ha sconvolti il mondo negli ultimi mesi sta lì. E la crisi ha enfatizzato il conflitto. Un conflitto che è diventato, anche all’interno delle nostre comunità, il terreno in cui si annidano e crescono paure, angosce, chiusure, egoismi. Si produce, così, un circolo vizioso: quella cultura che ha cavalcato la competizione esasperata e conflittuale, quella cultura che ha finito per stravolgere le regole e il mercato, oggi utilizza le conseguenze della crisi per sopravvivere. E’ il modo in cui la destra la governa. Si alimentano le paure. Si accentua la disgregazione sociale. Tutti contro tutti. Si aspetta che solo il tempo sia l’arbitro che dovrà decidere chi resterà in piedi dopo la crisi. Noi abbiamo un’idea diversa. Noi democratici pensiamo che proprio dalla crisi possa e debba uscire una società migliore. Nel modo di organizzare i rapporti sociali. Nel modo di vivere i nostri rispettivi ruoli all’interno della comunità. Ma anche nel modo di produrre, di consumare. Di rapportarsi all’ambiente. Siamo convinti che da una crisi così drammatica e profonda non si esca da soli. Per questo parliamo di valori. Di solidarietà. Dell’importanza di riscoprire anche parole dal sapore antico, come quelle che parlavano di bene comune come bene di tutti. E lo dico qui, nel Nordest, in una terra che è profondamente impregnata di tradizioni ed esperienze di solidarietà sociale. Ma i valori non serve evocarli, bisogna viverli. Dalla crisi si esce insieme. Lo dico a chi, come voi, vive in trincea e rischia.
Qualche mese fa sono stato a Prato. Ho visto con i miei occhi il volto della crisi. Ma ho visto anche che cosa significa solidarietà. Etica del lavoro. Una comunità che trova la sua identità e cerca il suo futuro attorno alla vita quotidiana di un’impresa. Che è anche qualche cosa di più profondo che soltanto qualcosa che serve a produrre ricchezza. Sono stato in una di quelle piccole realtà che costituiscono il tessuto produttivo del distretto tessile di Prato. Sono tantissime e provano sulla loro pelle che cosa sia la crisi del loro settore. Una piccola impresa. Un artigiano che ha fatto il salto e ha costruito la sua azienda. E a lavorare con lui dodici operai. Si parlava di scenari, di prospettive. Di ammortizzatori sociali, di cassa integrazione. Degli strumenti necessari a reggere l’urto di questa crisi. Poi quell’imprenditore mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: qui nella mia azienda ci sentiamo tutti sulla stessa barca. O ci salviamo tutti o chiudo. Io non licenzio nessuno. Questa è l’etica vissuta e non predicata. Questa è la via d’uscita dalla difficoltà. Uscirne insieme. Le imprese in Italia sono circa sei milioni . Il 99,2% di queste ha meno di 50 dipendenti . Il 95% ha meno di 10 dipendenti. Sono famiglie che lavorano ed investono su se stesse per il proprio futuro . Sono la vera ricchezza dei nostri territori, perché creano lavoro e ridistribuiscono la ricchezza Sono una rete economica ma anche sociale. Ci sono imprenditori che, come quello che ho conosciuto a Prato, ipotecano la casa per non licenziare i propri collaboratori. Questo impegno va valorizzato con politiche di sostegno, soprattutto in una crisi come questa. Non abbiamo alternative. Che senso avrebbe, in un momento come questo, mettere lavoratori contro imprenditori? Io so che tra un precario che perde il posto e un piccolo imprenditore o un artigiano che deve chiudere l’azienda non c’è nessuna differenza. Tutti e due non hanno ammortizzatori sociali. Tutti e due finiscono a zero euro, pieni di debiti.
E solo una politica ideologizzata potrebbe pretendere di stilare una classifica della loro disperazione. Io ho cominciato a fare l’avvocato, facendomi le ossa col lavoro più ingrato. Recuperavo il crediti di un Consorzio Artigiano di Garanzia. Pignoravo i beni di artigiani innamorati del loro lavoro. Pieni di debiti, sull’orlo del fallimento ma che amavano talmente la loro azienda, quella che avevano sognato per tutta la vita, da non capire che non c’era più nulla da fare per salvarla. Venivano nel mio studio. Qualcuno piangeva perché voleva rateizzare il debito o offrire garanzie impossibili. Lì ho capito, e non l’ho mai dimenticato, cosa significa essere imprenditori. Cosa significa amare il proprio lavoro. Lì ho capito che è assurdo mettere le imprese contro i lavoratori e i lavoratori contro le imprese. Per questo dobbiamo dire che oggi per noi , in questo secolo libero dalle ideologie, il mondo del lavoro è fatto da lavoratori e imprese allo stesso modo. Mai più gli uni contro gli altri. Lo hanno capito prima dentro le aziende che nella politica. E invece salvare le imprese non significa, forse, salvare posti di lavoro? Salvare posti di lavoro, o dare ammortizzatori sociali, non significa anche, oltre che fare del bene, far crescere i consumi e aiutare le imprese? Uscirne insieme, dunque. E’ il compito della politica. Ed è il nostro obiettivo: un nuovo welfare universale. Non è il libro dei sogni. Un nuovo welfare è possibile. E si regge su un elemento fondamentale: un patto di lealtà fiscale. So di toccare un tema sensibile. Difficile. Difficile perché parlare di fisco è impopolare. E non solo perché pagare non piace a nessuno. E nemmeno perché in questi anni la destra ha seminato una cultura che in nome della esaltazione della libertà individuale ha demonizzato ideologicamente tutto ciò che appartiene alla dimensione pubblica. Fino a rappresentare lo stato e il fisco solo come una sorta di usurpatore che ferisce quella libertà, derubandoci. Le tasse si devono pagare. Ma un conto è pagare sapendo che quelle tasse andranno a finanziare un sistema di servizi che rappresenta la sicurezza e la protezione sociale per tutti. Appunto, un welfare universale moderno ed efficiente, che nel momento della crisi funziona allo stesso modo per l’operaio come per l’imprenditore, per il lavoratore dipendente come per quello autonomo . Un altro conto è dover prendere atto che troppo spesso quelle tasse così alte finiscono in sprechi, inefficienze, corruzioni, come accade troppo spesso per la macchina della pubblica amministrazione.
Lo stato, le istituzioni, la pubblica amministrazione assumono il profilo ostile di un nemico non tanto perché costano. E costano troppo. Ma perché costano e non funzionano. Perché invece di rendere più semplice la nostra vita, quella dei cittadini come quella delle imprese, ce la complicano con cavilli, procedure, burocrazie inutili. Tanto più cresce la distanza tra il bisogno di istituzioni efficienti e una macchina pubblica che è tutto il contrario, tanto più diventa forte il disagio, la diffidenza, il rifiuto. So che è il vostro disagio. E’ il vostro rifiuto. Noi, la nostra parte politica, il centrosinistra, abbiamo letto questo atteggiamento come un fatto politico. Abbiamo continuato ad usare colpevolmente lo schema ideologico di una stagione precedente. E per questo abbiamo messo gli imprenditori dall’altra parte della barricata. Come fossero avversari. Che quando va bene al massimo ci si può fare un accordo. Abbiamo sbagliato. Gli imprenditori non sono avversari, né soltanto amici se rispettano le regole. Gli imprenditori sono una parte di noi. Una parte del Pd che io ho in mente. Una parte senza la quale non saremo mai un grande partito riformista, moderno e al passo coi tempi. Per questo mi prendo le responsabilità della mia parte politica. Anche di quelli che mi hanno preceduto nel campo del centrosinistra. Abbiamo sbagliato a guardare con sospetto e diffidenza il mondo dell’impresa, quelle migliaia e migliaia di piccole e medie imprese, di artigiani, di chi rischia di tasca sua. Abbiamo sbagliato a trattarvi come un popolo di potenziali evasori, interessati solo al profitto. E io oggi sono qui, nel cuore del Nordest, a chiedervi scusa. A chiedere scusa a voi che siete i portatori e gli eredi della cultura del nostro popolo. Di una storia secolare di talenti, di fatica, di creatività, di mestieri. Un partito non sarà mai una grande forza nazionale se non sarà in grado di fare un patto con i produttori e con le imprese. Ed è solo il riconoscimento degli errori che abbiamo commesso che può costruire un patto nuovo tra la politica riformista e voi. Anche tra voi e tutta la politica. Tra voi è uno stato che vi chiede lealtà fiscale perché capace di offrire servizi, efficienza, onestà. Un patto nuovo. Fra impresa, lavoro, politica ci vuole di più di una tregua. Ci vuole collaborazione, nelle forme di discutere, ma su obiettivi comuni. E è la politica che deve favorire questa collaborazione.
Questo è il tempo del realismo e della concretezza. Proprio quella concretezza che è mancata finora nel fronteggiare la crisi. Non voglio fare polemiche, ma gli operatori hanno potuto sperimentare direttamente che il governo, di fronte all’emergenza, ha fatto annunci più che interventi reali di sostegno alle piccole e medie imprese. Alcuni provvedimenti rischiano di arrivare troppo tardi, quando la crisi avrà fatto ancora già gravi danni alle imprese e ai lavoratori. Non si tratta di intervenire per salvare imprese decotte, ma di imprese sane, con prodotti e mercati validi, che possono essere ancora vitali se ricevono il giusto sostegno, dal credito per lavorare alla cassa integrazione per superare la crisi. Le grandi imprese possono resistere di più perché hanno maggiori mezzi e spesso sono trattate meglio, soprattutto dalle grandi banche. Le grandi imprese servono alla nostra economia. Non vanno osteggiate. Ma sono le piccole, gli artigiani, i piccoli esercenti, i professionisti, che soffrono di più, che spesso sono discriminati o trascurati e che devono chiudere mentre potrebbero riprendersi. Lo dico con una battuta: perché si pensa sempre prima ai grandi? Non c’è solo la Fiat. Non c’è solo Alitalia. Meritano sostegno anche i produttori di vero made in Italy, chi fa scarpe belle e innovative, chi fa gioielleria a Vicenza, o elettrodomestici di gamma nel trevigiano. Messi tutti insieme fanno più ricchezza, creano più posti di lavoro e sviluppo migliaia di piccole e medie imprese o sempre le stesse grandi? Se si aiutano queste ultime perché non si aiutano tutti? Contano i posti di lavoro e la ricchezza prodotta o conta di più essere nei giri che contano, nei salotti giusti, nei consigli di amministrazioni giusti? Le piccole e medie imprese, il commercio, l’artigianato sono i motori del nostro paese. Le associazioni danno invece bollettini di guerra, oltre 80.000 piccoli esercizi chiusi nell’ultimo anno. Per la prima volta da tanti anni il saldo fra imprese nate nel settore artigiano è negativo, anche nelle aree del nord est. Non si può far finta di niente. Troppe vertenze e situazioni di crisi sono ferme ai ministeri e si stanno “incartando”. Gli ammortizzatori in deroga sono utili, ma non arrivano a tutti, specie per le imprese di minori dimensioni. I piccoli operatori faticano a seguire le procedure o non le conoscono. Non tutte le regioni anticipano le risorse necessarie. Per rendere inutile l’intervento bastano 3 mesi di ritardo. Occorre una scossa.
Servono interventi subito, perché i prossimi 3-4 mesi saranno cruciali, per permettere alle imprese di resistere aspettando la ripresa. Sappiamo bene che il vincolo del debito pesa sui bilanci. Ma ci vuole più coraggio e il vincolo del debito si può sopportare se c’è un impegno credibile per rilanciare la crescita e per fare le riforme necessarie per la ripresa. Le risorse si possono trovare riducendo gli sprechi e le spese inutili, di tanti enti pubblici superflui, e anche i costi della politica. Ma questo non si è verificato. Le spese correnti sono cresciute del 3% nell’ultimo anno, nonostante i tagli alla scuola, ai comuni. Miliardi di euro che avrebbero potuto essere investiti nell’economia reale, a sostegno di chi produce e di chi lavora. Noi avevamo appena cominciato a fare qualcosa negli anni passati. Abbiamo iniziato a mettere il tetto agli stipendi dei manager pubblici, a ridurre il numero dei consiglieri degli enti locali e le loro retribuzioni, a bloccare gli stipendi dei parlamentari. Ma non basta, bisogna fare interventi più incisivi, a cominciare dalla riduzione dei costi della politica. Anzitutto ridurre il numero dei parlamentari ma anche dei tanti enti e aziende pubbliche di cui si può fare a meno. Bisogna muoversi su questa linea: dimostrare con i fatti cosa significa un grande patto della politica con produttori e imprese, in cui ognuno fa la propria parte. E la politica deve dire cosa significa fare la propria parte. Pochi punti concreti. Otto obiettivi su cui impegnarsi. Primo. La vera emergenza di questa fase si chiama credito. La mia proposta è di stanziare subito 4 miliardi per rafforzare le garanzie al credito alle imprese attraverso il sistema dei consorzi fidi. Aggiuntivi rispetto a quanto fatto dalle regioni per sostenere le imprese a breve. E sopratutto sostenere le imprese che avevano investimenti in corso all’inizio della crisi finanziaria, anche perché quelle sono le più colpite e sono anche quelle più innovative. Occorre credito per sostenere l’attività quotidiana. Mentre i prestiti si sgonfiano con la bolla finanziaria e la liquidità delle banche cresce, il credito continua a essere centellinato, specie per le piccole e medie imprese. Il rapporto fra domanda di credito e accoglimenti è eloquente, 100 a 10, denunciano i piccoli imprenditori dei vari territori. Il Fondo di garanzia per le piccole imprese è piccolo e l’acceso è tortuosissimo. Non basta patrimonializzare le banche, occorre garantire effettiva liquidità.
Alle piccole imprese questa serve anzitutto per il circolante, prima ancora che per gli investimenti. Le associazioni di imprenditori stanno chiedendo da tempo una moratoria di Basilea 2, sia per non aggravare la stretta creditizia, sia per prendere tempo in vista di una revisione del sistema. Anche questo è un impegno che mi sento di assumere insieme. Secondo. Allentare il patto di stabilità per i comuni virtuosi. I comuni con bilanci in ordine, e ce ne sono tanti in Italia, devono essere lasciati liberi e non bloccati da un patto di stabilità troppo rigido. Così potrebbero dare ossigeno all’economia locale attivando subito risorse per aprire cantieri per opere utili, non le grandi opere che impiegano anni a realizzarsi ma interventi sul territorio che mettano in moto le energie e le imprese locali. Abbiamo avanzato proposte precise, in parlamento, in questa direzione, per ridare fiato all’economia e alle PMI. Una mozione a mia firma è stata persino approvata. Poi il governo ne ha fatto carta straccia. Terzo. Lo stato paghi i debiti. Per le imprese è altrettanto urgente dare seguito, in modo massiccio, all’accelerazione dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni, di tutte le amministrazioni (anche quelle locali). Il debito di cui parliamo è stimato tra i 45 e i 50 miliardi di euro e i pagamenti avvengono con ritardi che in media sono attorno ai 200 giorni. Basterebbe che anche solo il trenta per cento di questi pagamenti fosse sbloccata subito per dare al sistema delle piccole e medie imprese un aiuto decisivo. Si deve fare. Non è un regalo, è un diritto delle imprese. Sono soldi vostri. Quarto. Più protezione e sicurezza sociali. La disoccupazione è la prima preoccupazione di padri e figli; un vero dramma per i lavoratori ma anche per le imprese. Noi abbiamo richiesto la riforma degli ammortizzatori sociali per contrastare questo dramma; per garantire a tutti i lavoratori dipendenti da aziende in crisi e a tutti quelli che perdono il lavoro un reddito adeguato per vivere: la cassa integrazione per le crisi temporanee e un assegno di disoccupazione per i disoccupati. Queste tutele vanno garantite a tutti. Non bastano i provvedimenti in deroga. Questi raggiungono solo una parte di chi avrebbe bisogno. Molte categorie, 1.600.000 persone dice Draghi, sono di fatto escluse. Oltre alle imprese che non riescono ad avere la deroga, restano fuori i lavoratori parasubordinati (co.co.co), le cosiddette partite Iva, i professionisti di vario genere. Anche questi hanno bisogno di protezione di fronte alla crisi.
Discutiamo con loro le forme più adatte. Ad esempio, per i piccoli negozi si può riprendere la formula della “rottamazione” finalizzata ad incentivare il rinnovo delle reti distributive, e a rendere più competitivo il commercio. Aiuti specifici per la crisi dovrebbero prevedersi anche per i migliaia di studi professionali, che stanno chiudendo o licenziando. Chiediamo questi interventi per un esigenza di giustizia verso i lavoratori, ma nello stesso interesse delle imprese. Perché gli ammortizzatori sociali servono anche a sostenere la domanda, i consumi. E questo è un elemento fondamentale per la ripresa. E poi perché la cassa integrazione serve a mantenere legati i dipendenti alle aziende. Le piccole imprese che non possono beneficiarne sono costrette a licenziare anche di fronte a crisi di breve durata e così a disperdere il loro patrimonio più prezioso. Per questo chiediamo un impegno comune, anche vostro perché non si intervenga solo con provvedimenti di deroga, caso per caso, ma con una vera riforma che dia sicurezza e fiducia a tutti. Un nuovo welfare, dunque, moderno ed efficiente. Servono risorse. E servono scelte coraggiose per finanziarlo. Noi pensiamo che sia il momento di rilanciare con forza anche il tema difficile delle pensioni. Ha ragione il governatore Draghi. Serve un patto tra generazioni. Si può chiedere ai genitori di lavorare qualche anno in più se si da a loro la garanzia che le risorse verranno utilizzate per i loro figli. Per le pensioni e per gli ammortizzatori sociali che serviranno alla sicurezza e alla protezione sociale di quella generazione che è stata costretta alla precarietà e a un futuro incerto. Dobbiamo avere il coraggio di dirlo. Anche a costo di perdere qualche voto. Quinto. Rilanciare le infrastrutture. Diciamo tutti che la loro carenza pesa sulla competitività del sistema produttivo in tutto il paese, specie nelle aree più vitali. Ma manca il coraggio di prendere decisioni chiare: scegliere poche priorità, invece di fare promesse a tutti. E non limitiamoci alle grandi infrastrutture. Gli enti locali, i comuni in primis, sono più importanti stazioni appaltanti di molte opere piccole e medie, ma essenziali per rendere funzionali anche le grandi opere.
Promuoviamo un’alleanza comune sui territori per sbloccare questi lavori e per mobilitare le risorse necessarie. Ripropongo qui una proposta che potrebbe davvero rimettere in moto il volano dell’economia: un grande piano di manutenzione straordinaria del patrimonio di edilizia pubblica. Scuole, prefetture, comuni, ospedali, ministeri. Manutenzione finalizzata al risparmio energetico e all’utilizzo di energie alternative. Far ripartire l’edilizia non devastando il territorio ma lanciando la green economy. Sesto. Un fisco più equo. Partiamo, anche qui, affrontando l’emergenza. E l’emergenza dice che tante, troppe aziende non hanno in questa fase liquidità neanche per pagare le tasse. Noi proponiamo di almeno rateizzare l’acconto di imposta di novembre. E poi ripensare l’Irap. Non si tratta di fare promesse che poi non si possono mantenere. La mia proposta su questo punto è una progressiva forte riduzione dell’Irap da finanziare attraverso risorse recuperate da una altrettanto progressiva forte riduzione degli incentivi alle imprese, in particolare quelli non incentivano proprio nulla ma che alimentano invece clientelismo e corruzione. Questa mi sembra una strada percorribile all’insegna del realismo. Un realismo che può portare gradualmente sino all’eliminazione di Irap e incentivi insieme. Poi è necessaria la lotta all’evasione che non si fa vittimizzando le categorie del lavoro autonomo e delle imprese, ma colpendo gli evasori. Un punto critico sono gli studi di settore. Sono stati concepiti come strumento di razionalizzazione del sistema fiscale nell’interesse delle imprese oneste e di un fisco più intelligente. Purtroppo sono vissuti come uno strumento vessatorio e indiscriminato. Proviamo a tornare allo spunto originario. Intanto spingiamo per adeguare veramente i parametri degli studi allo stato di crisi. Perché se questi studi oggi non sono in grado di fotografare lo stato dei settori tempestivamente finiscono per far pagare tasse su redditi che non ci sono più. E questo sarebbe più che un’ingiustizia: sarebbe una beffa di cui sorriderebbero solo gli evasori veri. Settimo. Far funzionare meglio la pubblica amministrazione e la giustizia civile. Troppe volte le piccole imprese sperimentano la pubblica amministrazione come un impedimento alla propria attività con decine di giornate di lavoro sprecate per rispondere alle esigenze della burocrazia.
Non è con i proclami che si da al Paese quello che serve: una pubblica amministrazione efficiente che sostenga l’azione delle imprese. Ci vuole una profonda semplificazione che parta ad esempio dall’obbligo per tutti gli uffici pubblici di non chiedere alle imprese nessun documento che sia già in possesso della stessa P.A. E insieme una giustizia civile che consenta di far valere un proprio diritto in tempi certi e ragionevoli. Ottavo L’innovazione come fattore strategico nella competizione. Anche qui serve concretezza. Puntiamo su misure realistiche: un fisco premiale che aiuti le piccole imprese a superare i loro principali motivi di debolezza competitiva, già ricordati sopra, che sostenga l’innovazione, tutta l’innovazione non solo quella dei centri ricerca delle grandi aziende, ma anche quella applicata, spesso informale, che fanno quotidianamente tante piccole imprese. E che sostenga gli accordi fra imprese e università e l’assunzione di giovani ricercatori. Anche le piccole imprese possono utilizzare le capacità e i talenti dei nostri giovani diplomati e laureati, da sole o mettendosi insieme. E’ su questi giovani e sul loro merito che le imprese devono puntare, se vogliono crescere guardando lontano. Esploriamo i nuovi scenari per preparare già oggi il futuro. Preparare il futuro vuol dire anche valorizzazione dei territori. Serve un patto forte tra imprenditori e istituzioni locali. Non disperdiamo un patrimonio che abbiamo e che ha funzionato: la rete di distretti e di attività innovative che ha sostenuto la nostra economia in Italia e all’estero, e che sta reagendo bene alle condizioni critiche dell’attuale congiuntura. L’Italia ha bisogno più che mai di queste risorse, per rilanciare la competitività e la crescita. I necessari processi di innovazione non possono essere governati centralisticamente. Perché è sui territori che si sviluppano le nuove conoscenze e i beni collettivi necessari per il decollo di nuove imprese e per la loro crescita. I territori hanno bisogno di autonomia di sostegno economico e finanziario, ma anche di riconoscimento politico. Questo ripeto è il nostro convincimento e il nostro impegno per un federalismo che non sia solo uno slogan vuoto e pericoloso. Anche per questo non abbiamo ostacolato ma anzi abbiamo migliorato e corretto in Parlamento le norme sul federalismo: perche pensiamo che norme buone, non quelle proposte inizialmente dalla Lega, possano rappresentare per le istituzioni e le economie regionali un po’ quello che i parametri di Maastricht hanno rappresentato per l’economia nazionale.
Ecco. Sono solo alcune delle cose che volevo dirvi. Alcune delle cose che mi impegno a fare se sarò rieletto segretario. Molte di queste si potrebbero fare subito. Potrebbero essere una risposta utile all’emergenza. Altre richiederanno tempo. Orizzonti più lunghi. Ma sono orizzonti che ci interpellano tutti. Sono una sfida diretta soprattutto per voi. Per un mondo che ha una vocazione storica all’innovazione e alla sperimentazione di soluzioni nuove a problemi inediti. A questa vocazione il Paese fa appello anche oggi E’ una strada in salita. Dobbiamo risalire la china della crisi. E dobbiamo farlo recuperando ritardi che sono solo nostri e che frenano lo sviluppo. Ma riconoscere queste difficoltà, denunciarle, chiedere che si affrontino non significa essere anti italiani. Non vuol dire cedere al disfattismo. Berlusconi ha detto che il Partito Democratico tifa per la crisi. E’ un insulto. Non fosse altro perché quando è toccato a noi governare abbiamo toccato con mano i danni prodotti al bilancio pubblico dalla destra creativa. Avremmo, dunque, ottimi argomenti per polemizzare. Per rispondere che si governa con i fatti e non con le calunnie. Ma sappiamo che le risse politiche non fanno uscire dalla crisi. La destra al governo è divisa e copre le incertezze e le omissioni con gli annunci. Dieci volte hanno annunciato il Ponte sullo stretto. Dieci volte la Banca del sud. E intanto imprese e lavoratori aspettano. Noi non resteremo fermi. Faremo proposte e opposizione insieme. Faremo la nostra parte.
Per cambiare l’Italia, per liberare il suo futuro, per ridare speranza ai giovani e fiducia ad un Paese da troppo tempo avvilito e rassegnato. Ci proveremo. Senza aspettare di essere al governo. Cominceremo subito. Adesso.
Thiene (Vi), 17 Ottobre 2009
Pubblicato il 17 Ottobre 2009
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