La Confederazione sindacale internazionale, che conta nel mondo 150 milioni di aderenti (compresi gli iscritti a Cgil, Cisl e Uil), ha dichiarato che oggi è la giornata mondiale del Lavoro Dignitoso. Sarà celebrata con numerose iniziative in un centinaio di paesi.
Il nome che è stato dato alla giornata non è un’etichetta di maniera. Un lavoro merita di venir definito dignitoso quando assicura a chi lo presta alcune specifiche sicurezze, da un salario il cui importo sia sufficiente per un’esistenza civile alle tutele sindacali, dalla possibilità di sviluppo professionale ad una pensione accettabile. La crisi in atto ha minato nel nostro come in altri paesi sviluppati anzitutto la sicurezza del salario (nel doppio senso di stabilità e importo) per milioni di persone che ne godevano, mentre nei paesi in via di sviluppo masse di lavoratori la vedono sempre più lontana.
Tra la sicurezza del salario che viene meno per chi l’aveva, e l’insicurezza di coloro che non l’hanno mai conosciuta, esiste una relazione diretta che non è dovuta alla crisi. Quest’ultima l’ha soltanto messa in maggior evidenza. I nostri salari sono bassi perché nei maggiori paesi emergenti, in primo piano Cina e India, sono da cinque a dieci volte più bassi. Questo squilibrio produce da vari lustri una serie di conseguenze negative per i lavoratori. Le imprese che producono merci e servizi trasferiscono quote crescenti della produzione, o dei posti di lavoro, o di tutt’e due, nei paesi dove i salari sono più bassi. A volte minacciano soltanto di farlo, ma il risultato è analogo: una pressione crescente sui salari e sulle condizioni di lavoro nei nostri paesi al fine di rendere gli uni e le altre più “competitivi”.
Al tempo stesso fiumi di merci a basso costo, prodotti per circa due terzi da imprese Ue e Usa delocalizzate, ovvero da decine di migliaia di sussidiarie da loro controllate nei paesi emergenti, inondano i nostri mercati e ne cacciano le produzioni locali. Il consumatore che alberga in ciascuno di noi è ben contento di poter acquistare una camicia a 10 euro, un giocattolo per 5 e un elettrodomestico per meno di 50; mentre nel lavoratore che sta in noi, o nella nostra famiglia, o nel vicinato, cresce la preoccupazione per il salario che rischia di scomparire. Intanto che la persona morale, la quale sta pure in noi, da parte sua sonnecchia, poiché quei prezzi così ridotti sono resi possibili da paghe che nei paesi asiatici sono inferiori a un euro l’ora, e da condizioni di lavoro sovente indecenti.
In questo conflitto creato di proposito dalle corporation occidentali tra i nostri salari e quelli asiatici è insita anche una notevole insensatezza economica, che la crisi attuale ha posto in severa luce. Essa si compendia nel fatto che i lavoratori a basso salario dei paesi sviluppati consumano meno, pagano meno tasse, versano contributi minori per la previdenza e la sanità, siano pubblici o privati, fanno studiare i figli per meno anni. Ciò significa che i bassi salari sono un danno sia per loro, sia per l’intera economia. In Usa, una delle cause principali della crisi partita dai mutui facili sta in un solo dato: il 90% dei lavoratori americani aveva nel 2006 un reddito reale inferiore a quello del 1973, meno di 30.000 dollari in luogo di 31.000. E si veda quel che accade in Italia: comuni in difficoltà per fornire servizi essenziali, mentre mancano 800.000 posti negli asili e nelle scuole materne; ferrovie al limite della decenza per la maggior parte degli utenti; scuole in cui sono i genitori a portare i gessetti; dipartimenti scientifici che frugano nei bilanci non per acquistare l’ultimo supercomputer ma la carta per la stampante, e non da ultimo migliaia di chilometri quadrati di terreni di montagna e collina pronti a crollare e uccidere. Per nessuna di queste urgenze, affermano le autorità, ci sono abbastanza soldi. Ma qualcosa in più sicuramente ci sarebbe se i salari reali non fossero quasi fermi da oltre dieci anni, grazie alle strettoie della cosiddetta competitività.
Nei paesi asiatici, ovviamente, i lavoratori stanno assai peggio, perché ai salari cinque o dieci volte più bassi si accompagna la scomparsa o la drastica riduzione della protezione sociale. Assistenza sanitaria, pensioni, istruzione: se uno vuole qualcosa più del minimo, che spesso è prossimo al niente, deve pagarselo. Ma non guadagnano abbastanza, e l’intera domanda interna ristagna. Pertanto, lasciando da parte i richiami alla morale, ai quali il comportamento economico razionale è per definizione scarsamente sensibile, un modo efficace per difendere il salario presente e futuro dei lavoratori italiani ed europei consisterebbe nell’aumentare il salario dei lavoratori asiatici.
Da questo punto di vista, tra le iniziative collegate alla giornata mondiale del Lavoro Dignitoso merita attenzione la campagna volta a offrire un salario minimo vivibile ai lavoratori asiatici, lanciata dai sindacati internazionali dell’abbigliamento. Il 60% dei capi di abbigliamento venduti nel mondo viene prodotto da 100 milioni di lavoratori residenti in sette paesi asiatici, di cui i più popolosi sono Cina, India e Indonesia; i più poveri, Bangladesh e Cambogia. I sindacati hanno individuato in 475 dollari mensili (poco più di 300 euro), tenuto conto del potere di acquisto interno di ciascun paese, l’importo del salario minimo vivibile o dignitoso per mantenere una famiglia di quattro persone. Tale somma rappresenta solo il doppio dell’attuale salario minimo in India, e poco più di quello cinese, ma sarebbe quattro volte superiore a quello attuale della Cambogia, e sette volte a quello del Bangladesh. I sindacati dell’abbigliamento non si fanno quindi molte illusioni circa la possibilità di portare rapidamente il salario minimo di quei paesi al livello indicato. Ma confidano che sia nei paesi in via di sviluppo, sia in paesi come il nostro, si facciano strada politiche industriali, e politiche del mercato del lavoro, fondate sulla consapevolezza che il livello dei nostri salari e la qualità della nostra economia dipende non poco dall’aumento dei salari dei lavoratori asiatici. A cominciare da quelli occupati direttamente o indirettamente da corporation Usa e Ue.
La Repubblica, 7 ottobre 2009