Il cittadino europeo conosce il caso Berlusconi meglio di quello italiano e può farsi un giudizio autonomo C´è un problema di libertà se i giornalisti devono pensare alla loro sorte quando si mettono a scrivere.
Se è ancora possibile, nel mezzo dello scontro politico che divide l´Italia, vorrei provare ad uscire dagli slogan per ragionare su qualcosa che non è di destra o di sinistra e fa parte dei fondamentali di ogni normale democrazia, così come tutti noi la intendiamo: il diritto dei cittadini di sapere, cui corrisponde il dovere dei giornali di informare.
Questo diritto nella democrazia italiana di ogni giorno è a mio parere fortemente indebolito. Il controllo dell´intero universo televisivo da parte di un solo soggetto – che è anche capo di un partito, della maggioranza parlamentare e del governo – è un´anomalia in tutto l´Occidente.
Già questo dovrebbe farci riflettere come cittadini, così com´è anomalo il silenzio che ormai circonda il conflitto di interessi, quasi fosse un male incurabile, con cui convivere finché qualcuno inventerà il vaccino.
Stiamo parlando di lui, del cittadino. Non dei giornali o dei telegiornali, che sono soltanto strumenti della cittadinanza, in quanto libere imprese dell´informazione. Quel cittadino – in nome del quale si svolge oggi a Roma la manifestazione per la libertà di stampa – se esposto soltanto alla luce berlusconiana dei telegiornali pubblici e privati, sa solo ciò che vuole il potere. Ad esempio, non sa nulla dello scandalo che da sei mesi circonda il Capo del governo, lo ossessiona portandolo ad insultare i giornali che ne parlano, e gli impedisce di far politica liberamente, ostaggio com´è delle sue contraddizioni e delle sue bugie. Qualunque medio lettore di qualsiasi giornale europeo ne sa molto di più. Soprattutto, essendo informato, è in condizione di formulare un´opinione consapevole sulla rilevanza o meno di questo scandalo, e di esprimere un giudizio avvertito e autonomo.
Nei grandi scandali sollevati dalla libera stampa in altri Paesi, infatti, il concerto spontaneo tra i giornali che indagavano e i grandi network televisivi che rilanciavano le notizie ha reso coscienti e partecipi i cittadini, finché i leader politici coinvolti nelle vicende – tra tutti, Richard Nixon – hanno dovuto rispondere e rendere conto non solo alle domande di un´inchiesta giornalistica permanente, ma alla pubblica opinione, il cui peso è stato determinante. Da noi, è successo il contrario. Quando Repubblica ha notato contraddizioni e bugie nel racconto affannato e affannoso che Berlusconi ha via via fatto della vicenda, gli ha chiesto un´intervista e non avendola ottenuta gli ha rivolto in pubblico dieci domande, quelle bugie e quelle contraddizioni sono rimaste un problema di Repubblica e dei giornali stranieri. Eppure la menzogna del potere è un problema della democrazia, dunque di tutti e principalmente del cittadino elettore: oltre che uno spazio naturale e obbligatorio per ogni libero giornalismo.
Abbiamo dunque avuto di fronte – noi e i grandi giornali europei – una chiara e semplice questione di verità. Non so chiamarla altrimenti. Il silenzio del Premier, riempito da urla e insulti come non accade altrove, ingigantiva infatti un´ultima, definitiva domanda: signor Presidente, qual è la ragione oscura ma a lei ben nota, che le impedisce di dire la verità al suo stesso Paese, e la costringe a mentire ai suoi concittadini?
Sarebbe sufficiente tutto questo, e cioè l´incapacità-impossibilità del potere di spiegare i suoi abusi, per chiedere pubblicamente che il diritto-dovere d´informazione venga rispettato. Ma c´è molto di più. Costretto da se stesso al silenzio su ciò che non può chiarire, il Presidente del Consiglio ha cercato nel crescendo degli ultimi mesi di costringere al silenzio chi indaga su di lui. Prima ha parlato di complotto della stampa, come se esistesse un´internazionale del giornalismo ispirata dalle cancellerie. Poi di una manovra eversiva per farlo cadere, come se le critiche fossero un golpe. Quindi ha insultato i giornalisti di Repubblica («delinquenti») che tentavano di rivolgergli una domanda, le poche volte in cui non sfugge ai cronisti. Dalla tribuna di un convegno di Confindustria ha ufficialmente invitato gli imprenditori a non far pubblicità sui giornali che lo criticano e cioè ha tentato di sovvertire il libero mercato per soffocare economicamente Repubblica, come ha spiegato la sera stessa ai cronisti. Al corrispondente del Paìs colpevole di chiedergli conto del danno provocato all´Italia da questi scandali ha augurato il fallimento del suo giornale. In tre occasioni ha invitato gli italiani a non leggere i quotidiani, denigrandoli, in una quarta ha spiegato che la televisione è la parte buona dell´informazione e la stampa quella cattiva. Sulla sua poltrona più comoda, quella di Porta a Porta, ha proclamato che ci sono troppi «farabutti» nei giornali e in televisione, ovviamente al riparo dalle querele grazie allo scudo che si è costruito con le sue mani. Davanti alle telecamere della Rai ha definito «inaccettabile» che il servizio pubblico possa criticare il governo, indicando poi per nome le trasmissioni colpevoli. Ha annunciato che risponderà solo a domande di suo gradimento. E ha certificato, definitivamente, che chi lo critica è anti-italiano: come se fosse italiano, e patriottico, registrare in silenzio tutto questo, e far finta di niente.
Veniamo poi all´ultimo atto. Non potendo rispondere alle dieci domande di Repubblica, il Premier le ha portate in tribunale, chiedendo al giudice di farle tacere, cancellandole. Ha denunciato i grandi giornali europei e Repubblica per aver ripreso le loro inchieste, quasi fosse possibile alzare un muro alla libera circolazione in Europa delle idee, delle opinioni e del giornalismo, purché gli italiani non sappiano, rimangano all´oscuro e non possano giudicare. Ha querelato l´Unità per aver riportato sullo scandalo giudizi del senatore Guzzanti che invece non è mai stato querelato, forse perché ha annunciato di avere molte cose da raccontare ai magistrati.
Infine, il killeraggio attraverso i giornali. Ad agosto il direttore del Giornale – di proprietà della famiglia Berlusconi – viene licenziato e spiega nel suo ultimo articolo il perché: ha fatto tutte le battaglie, ma si è rifiutato di rovistare «nei letti di direttori ed editori» di altri quotidiani. Ecco la concezione della stampa e del giornalismo del Presidente editore ed imprenditore. Infatti, col nuovo corso quel giornale colpisce a tutte colonne il direttore di Avvenire (il giornale dei vescovi) colpevole di aver criticato il Premier, rilanciando una vecchia vicenda già pubblicata un anno prima e spacciando per documento paragiudiziario una velina anonima che parla di omosessualità, scritta nel linguaggio dei servizi. È un ammonimento alla Chiesa, perché non dia giudizi sullo scandalo berlusconiano, e ai direttori di giornale, perché girino al largo, se non vogliono finire nel mirino. Poco dopo, lo stesso giornale lancia un avvertimento con minaccia preventiva a Fini, perché si rimetta in riga se non vuole che si ripeschino vecchie vicende che si fanno balenare con esplicite allusioni sessuali.
Fermiamoci un momento, visto che discutiamo di informazione. Tutti hanno parlato di character assassination, ma nessun giornale ha illuminato la figura gigantesca del mandante. Eppure in ogni criminal story che si rispetti chi preme il grilletto merita poche righe, conta l´ispiratore e il movente. Allora diciamo le cose come stanno. Si è cercato di coartare la libertà politica e personale della terza carica dello Stato, e lo si è fatto non solo per ciò che Fini ha detto fin qui, ma soprattutto per ciò che potrebbe dire e fare. Colpendo lui, si lavora già per l´agonia berlusconiana, sparando nel buio del futuro per spaventare tutti.
La questione di verità, così, è diventata per forza di cose una questione di libertà. Perché è un vero e proprio problema di libertà – anche se molti fingono di non accorgersene – doversi domandare se il Presidente del Consiglio stia usando i servizi e le polizie contro le ragazze che testimoniano dopo gli incontri con lui, i magistrati che indagano, i giornalisti che fanno le domande. È un problema di libertà il fatto che un gruppo di cittadini in questo Paese usi nelle telefonate, negli incontri, negli spostamenti le stesse cautele che si usavano in altri tempi e in altri Paesi non liberi. C´è un problema di libertà se i giornalisti intimiditi a mezzo stampa devono pensare alla loro sorte personale quando accendono il computer per scrivere un articolo che contenga qualche critica, magari timida, al Presidente del Consiglio.
In ogni Paese, un leader che si sente attaccato ha il diritto di difendersi. Negli altri Paesi, ci si difende usando le armi delle idee, della politica, del ruolo straordinario che una grande leadership ha davanti all´opinione pubblica quando si presenta a dire la sua verità su una questione controversa, e sa assumersene la responsabilità: come ha suggerito più volte a Berlusconi Giuliano Ferrara. In nessun Paese libero si colpisce personalmente o si minaccia esplicitamente di colpire chi critica il potere, riducendo la stampa di proprietà ad arma impropria: salvo dissociarsi alle cinque del pomeriggio, ad esequie della vittima avvenute.
Resta dunque l´ultima questione: si può governare una grande democrazia, nel cuore dell´Europa e del 2009, a colpi di dossier? Che immagine dà di sé un potere spaventato e spaventoso che sostituisce la leadership con l´intimidazione? Che futuro può avere un Premier che annulla la politica con le minacce? E fin dove arriverà, fin dove arriva già oggi, la rete dei ricatti e dei veleni che si allarga sotto il doppiopetto presidenziale?
Insomma, a furia di non rispondere restano solo le domande. E non finiscono mai.
La Repubblica, 3 ottobre 2009
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Sull’argomento segnaliamo anche i seguenti articoli
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“In piazza contro l’elettroregime”, di Vincenzo Vita* e Derrick de Kerckhove**
Le ultime sortite censorie, di tanta spropositata durezza – dall’attacco alle trasmissioni “scomode” della Rai, alle querele contro “l’Unità”, all’iniziativa giudiziaria contro ‘la Repubblica’, allo spregiudicato utilizzo del giornale di famiglia contro l’ “Avvenire”, al clima generale che si respira – vanno al di là di una vicenda contingente. Sono orrende storie di un lunghissimo romanzo noir. Ci impongono una questione ben più generale. Oggetto della manifestazione nazionale sulla libertà di informazione.
Cos’è esattamente il ‘berlusconismo’? Porsi bene le domande è la premessa per una decente risposta. E il quesito è proprio questo . Non si tratta di una fenomenologia meramente ‘patologica’, bensì di una vera e propria avvisaglia della ‘fisiologia’ assunta dalla crisi democratica. Qui e altrove, mutatis mutandis. Ovviamente, Sarkozy è diverso, Putin pure, l ‘America latina fa storia a sé (ma Chavez contro la libertà di informazione…), ma è doveroso leggere sotto la superficie dei segni. Solo più evidenti e plateali in Italia. E rintracciare l’ ’ismo’ evocato dal presidente del consiglio italiano. Avere un ‘ismo’ non è di per sé un valore: fascismo, nazismo, stalinismo, razzismo, e via di questo passo. Significa che le attività formali sono sopraffatte da quelle simboliche, che a loro volta mettono in scena qualcosa di più profondo di quello che il discorso pubblico, apparentemente, evoca. E infatti, complice l’irrisolto conflitto di interessi (oggetto ora di una tardiva resipiscenza, ma meglio tardi che mai), Berlusconi utilizza la comunicazione come cemento della politica: la politica si fa comunicazione, la comunicazione è la politica. E’ il segno della crisi del Politico che per tre secoli ha costruito sé stesso come sintesi sociale, grande narrazione, struttura compiuta delle idee e del linguaggio, a partire dall’illuminismo e trovando l’epifania nelle ideologie della metà dell’ottocento. Il nuovo millennio sta devastando – demotivandola- la sfera stessa della politica. Crisi profonda di motivazione. E di etica. Tendenze , fremiti xenofobi e autoritari per rispondere al mondo globale e al mercato internazionalizzato. Per prevenire, ecco il punto e l’origine delle spinte censorie, l’economia politica ( e morale) della “rete”: la metafora del beni comuni, della decrescita serena, dell’homo artifex, del dono, di un blocco sociale che possa avere le sembianze del ‘quinto stato’, di una vera cittadinanza digitale. E per questo si è scatenato il tipo moderno, postmoderno, aggiornato dei fascismi storici, l’ “elettroregime”. Che usa l’uso proprietario dei e sui media come manganello, rinverdendo le vecchie teorie ‘ipodermiche’, per le quali l’influenza dei mezzi radiotelevisivi arrivava ‘sottopelle’. Perché, altrimenti, l’ossessivo controllo di giornali amici e televisioni pubbliche e private, fino a costituire una sorta di gendarmeria mediatica? E perché inserire nel testo orribile del ministro Alfano sulle intercettazioni telefoniche o nel disegno di legge Pecorella, l’ennesimo tentativo di reprimere o condizionare la rete? Ma non si possono mettere a tacere web e cellulari o per altro verso, i giornali stranieri. Serenamente colpiti –questi ultimi- dall’autoritarismo immorale del premier italiano. Ma lo stesso uso dei corpi, con allucinante dispregio per il genus femminile, è parte della cerimonia dei media, oltre le previsioni del famoso libro di Dayan e Katz (‘Le grandi cerimonie dei media’, Baskerville 1994). E’ morta la ‘società dello spettacolo’ di Debord – non a caso i tagli del fondo specifico dello spettacolo – e sta nascendo un inedito stato spettacolarizzato.
L’appropriazione dello spazio pubblico per un uso personale è sempre problematico. Però, finora l’idea democratica dello Stato era (è) che lo stato stesso è uno “spazio pubblico”. La ‘repubblica’ romana, primo passo verso la fruizione attuale della democrazia, voleva significare la cosa comune, la “res publica”. La difesa della libertà civile dentro tale spazio comune contro la tirannia è un punto condiviso dalla repubblica romana e dalla rivoluzione francese. Ora, il nuovo spazio pubblico in pericolo è quello della rete. La neutralità di tale nuovo terreno di esperienza e di scambi sociali è una condizione indispensabile per sostenere i principi fondamentali della democrazia nella cultura digitale.
Infatti, sono tre gli spazi di ‘controllo’, molto diversi benché complementari ed integrati tra di loro: lo spazio fisico, regolato dalle strutture architettoniche, dall’ambiente urbano e dai trasporti; lo spazio mentale regolato dal linguaggio, dall’educazione e dalle discipline del pensiero e dell’ immaginazione; lo spazio della rete, il ciberspazio, regolato dalle proprietà tecniche: standard, protocolli e programmi del digitale e delle medesime strutture civili. ‘Firewall’ e legislazione: due modi di controllo.
Le regole della legge sono come l’architettura o l’urbanistica dello spazio pubblico. Si può condividere, rispettando le strutture di comportamento, lo spazio aperto della rete senza rischiare un controllo fuori delle norme accettate per e da tutti. Un conto è richiedere al server di verificare se qualche contenuto è contro la legge del paese, un altro (e ben diverso) è penalizzare il proprietario del server. La prima via è democratica, la seconda è tipica dei fascismi. O, per lo meno, dei regimi. E le norme contenute nella proposta di legge Alfano, ad esempio, minacciano i blog di silenzio totale. Chi avrebbe il coraggio di diffondere qualche notizia di fronte a simile minaccia ? Si uccide così il ‘citizen journalism’ e si chiude la bocca a chiunque non sia d’accordo con il governo.
Non è una proposta isolata. E’ l’ultimo passo in una seria di misure di protezione dello stato contro il pubblico (tipo la costruzione della fortezza da Basso a Firenze innalzata per la protezione dei Medici contro la popolazione fiorentina), l’interesse del pubblico.
Nel caso della proposta Alfano abbiamo l’esempio dell’appropriazione dello stato per fini privati, quelli di un gruppo ristretto di persone. Si tratta letteralmente dell’appropriazione della Repubblica.
Nel caso, ovviamente di ben altra natura, di Facebook, abbiamo un fenomeno contrario ma pure insidioso, l’appropriazione dello spazio della comunicazione, del ciberspazio, provando a riunire i vari strumenti di comunicazione digitale sotto il governo (e ogni tanto la proprietà intellettuale) del dominio privato di FB. Anche l’ e-mail diviene ‘proprietà’ di FB. E’ inaccettabile.
Il pericolo è che l’esempio dell’Italia serva da scusa ad altri paesi per votare le stesse cose nei rispettivi parlamenti e che alla fine il mondo intero della rete si veda soggetto alla proprietà di governi, di media e di imprese, senza posto e neanche spazio di riposta per il cittadino.
Il cosiddetto ’berlusconismo’ si riassume nel controllo dell’intero universo dei media, nell’eliminazione di tutti i modi di fare opposizione e, pertanto, della libertà civile primaria, quella del pensiero. Il tristemente famoso ‘Thought crime’, immaginato da George Orwell sessantuno anni fa, si profila ‘finalmente’ all’orizzonte, con venticinque anni di ritardo sulla predizione.
*senatore PD
**Derrick de Kerckhove – allievo e successore di McLuhan all’Università di Toronto
Articolo21.info, 3 ottobre 2009
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“La libertà di noi tutti”, di di Moni Ovadia
La libertà di stampa è la libertà di noi tutti. Lo sa molto bene chi come noi collabora a questo giornale per dignità verso le proprie idee e per responsabilità verso il paese e i cittadini tutti. Il potere che orienta l’Italia da quindici anni, ovvero dalla “discesa in campo”, e che ha condizionato la vita nazionale anche quando era all’opposizione grazie allo strapotere mediatico di un solo uomo, ci ha riempiti di insulti, di calunnie, ha scagliato contro di noi le accuse più strampalate ed infamanti, perché? Perché non rinunciamo né mai rinunceremo al diritto di pensare. Questa semplice verità che è il fondamento di ogni libertà e di ogni democrazia è intollerabile per una forza politica che si sostiene sugli interessi di un solo uomo ostile ad ogni dissenso. Il cavaliere e i suoi coristi irridereranno la manifestazione con l’affermazione che l’esistenza in vita di giornali indipendenti e di qualche rara voce critica in televisione sono la prova evidente della libertà di stampa. La libertà di stampa non è l’esistenza in vita di organi che criticano l’operato del governo, ma è la possibilità di esercitare la critica nel pieno rispetto del diritto di farlo senza censure, senza intimidazioni, senza minacce e senza leggi costruite apposta per condizionare pesantemente i giornalisti con la spada di Damocle di durissime conseguenze penali. Purtroppo in Italia la progressiva corrosione della libertà di stampa e della democrazia è iniziata da molto tempo con il varo della infame legge Mammì che ha dato l’abbrivio al più abnorme conflitto di interessi del mondo occidentale. Da quel momento in avanti la deriva è stata inarrestabile. Avere permesso questo obbrobrio giuridico e morale in futuro verrà imputato a quasi tutta la nostra generazione per i reati di superficialità, omissione, pavidità, ingiustificabile miopia e stupidità.
L’Unità, 3 ottobre 2009
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Segnaliamo anche questi interessanti video appelli
Il video appello di Ascanio Celestini
Il video appello di Francesca Fornario