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“Le due anime di un Pd scosso”, di Michele Salvati

Circolo dopo circo­lo, si stanno con­cludendo le vota­zioni tra gli iscrit­ti del Partito Democratico e il 25 ottobre i tre candi­dati — Bersani, France­schini e Marino — saran­no presentati al voto de­gli elettori e dei simpatiz­zanti: in pratica di chiun­que manifesti l’interesse a influire sulla scelta del­le cariche direttive del partito. Gia in quella da­ta, o al più un paio di setti­mane più tardi se sarà ne­cessario un ballottaggio, sapremo chi è il nuovo se­gretario del Pd. Prima di discutere del significato di questa scelta, tre com­menti di natura generale.

Il primo è che hanno partecipato al voto, sino­ra, circa 350.000 persone, più della metà degli iscrit­ti: non una piccola prova di democrazia, in un mo­mento in cui gran parte dei commentatori danno per spacciato, e con buo­ne ragioni, il ruolo demo­cratico dei partiti. E a que­sta occorrerà aggiungere la consultazione del 25 ot­tobre. Il secondo com­mento è che laddove il partito è maggiormente radicato, nelle regioni ros­se e nelle grandi città, nell’ambito dei circoli si è svolto un dibattito serio tra i sostenitori delle di­verse candidature: questa volta, a differenza di pre­cedenti investiture pilota­te dall’alto, prima del vo­to gli esiti erano realmen­te incerti. Oggi il risultato è noto: Bersani ha ottenu­to circa il 56%, Franceschi­ni circa il 36 e Marino il restante 8. Ma l’incertez­za permane per il voto de­gli elettori, il 25 ottobre, perché gli iscritti e i sim­patizzanti generici sono due popolazioni abba­stanza diverse. Il terzo commento è che la linea di divisione tra le posizio­ni politiche espresse dal­le tre candidature non è più quella delle diverse provenienze partitiche, gli ex Ds ed ex Dl: per ognuna di esse il soste­gno è molto misto, e se­gnala un processo di osmosi piuttosto avanza­to. Se la linea di divisione non è questa, qual è?

E’ abbastanza facile dir­lo per Marino, il vero out­sider di questo congres­so. Egli è portatore di un messaggio fortemente cri­tico nei confronti delle ambiguità del Pd, che im­puta in parte ad un’anali­si sbagliata del fenomeno Berlusconi — … come se si trattasse di un avversa­rio politico normale — in parte ad una eccessiva tol­leranza per le posizioni clericali o integralistiche che ogni tanto emergono tra gli esponenti cattolici del partito. Questa è l’ana­lisi ribadita ogni giorno dai giornali più letti dal popolo della sinistra e non meraviglia il buon successo della mozione nelle grandi città, tra i gio­vani e le persone istruite. Insistendo su queste criti­che, proclamando una po­litica della decisione e del­la nettezza, del ‘Sì-sì’ ‘No-no’ di evangelica me­moria, Marino si stacca nettamente dagli altri due candidati e si avvici­na alla posizione dell’Idv di Di Pietro, una perma­nente tentazione per il Partito Democratico.

Più difficile distingue­re le altre due mozioni, quelle degli insider, di Bersani e Franceschini, e non è di grande aiuto leg­gere attentamente i testi, sottolineare frasi più o meno felici, reticenze o si­lenzi più o meno sapien­ti: entrambe dicono cose simili, generiche e gradi­te al popolo di centrosini­stra chiamate a votarle. La mozione di Bersani è sicuramente la più critica nei confronti della breve storia del Pd di Veltroni.
Critiche alla segreteria Veltro­ni implicitamente le muove an­che Dario Franceschini, ma il dubbio che suscita la posizione di Bersani è che le critiche non riguardino solo le scelte tatti­che del recente passato, ma lo stesso disegno strategico, lo stesso impianto culturale sul quale l’Ulivo prima e il Pd poi sono stati costruiti. In altre pa­role: il dubbio è che un Pd gui­dato da Bersani — per ora co­stretto in un contesto bipolare dalla legge elettorale voluta dal centrodestra — sarebbe ben di­sposto a mutarlo qualora se ne presentasse l’occasione. In que­sto caso il senso della storia di cui parla Bersani, il suo possibi­le esito, sarebbe un ritorno al proporzionale, dove un Pd più nettamente «laico» e «di sini­stra » lascia il compito di con­quistare gli elettori più modera­ti a un rinnovato partito centri­sta, neo-democristiano, confi­dando poi in una alleanza di go­verno.

Si tratta di una posizione poli­tica più che legittima, ma è l’esatto opposto della scommes­sa da cui era partito l’Ulivo e sul­la quale si è formato il Partito democratico: quella di un parti­to di ispirazione democratico-li­berale, che nutre l’ambizione di governare il Paese a capo di una coalizione di cui è la componen­te maggiore e politicamente egemone. Un partito che non vuole nascondersi dietro una forza politica e a un presidente del Consiglio centristi, e rifiuta come scoraggiante e sbagliata l’idea che un partito di centrosi­nistra non riuscirà mai, in un contesto bipolare, a governare un Paese «organicamente» di centrodestra. Credo che spetti a Bersani chiarire, di fronte a ra­gionevoli dubbi, se la sua criti­ca al progetto originario del Pd è così radicale. Se lo è, il con­fronto con Franceschini acqui­sterebbe un senso molto più chiaro di quello che è possibile desumere dalla lettura delle due mozioni.

Il Corriere della Sera, 1 ottobre 2009