Il tracollo della Spd, caduta per la prima volta, cinquant’anni dopo Bad Godesberg, sotto la soglia del 25 per cento, sembra inverare anche simbolicamente, con qualche anno appena di ritardo, la tesi avanzata nel 1985 da Lord Dahrendorf. Forse «il secolo socialdemocratico » è davvero finito. Forse non solo in Germania, ma in quasi tutta l’Europa, i partiti socialisti e socialdemocratici sono davvero in via di estinzione, e abbisognano delle cure di un qualche Wwf della politica. Forse la sinistra, o come si chiama adesso, se non vuole che il morto abbranchi il vivo, deve davvero, per reinventarsi un futuro, lasciarsi senza troppi rimpianti alle spalle una lunga storia che, quasi ovunque in Europa, soprattutto nel secondo dopoguerra è, in larghissima misura, la sua storia. O, almeno, la sua storia più importante, e almeno sin qui politicamente e socialmente più produttiva.
Forse. Ma intanto, prima di mettersi a stilare frettolosi atti di morte, è bene stare ai fatti. E i fatti stanno lì a dire che, per quanto grave, e magari potenzialmente mortale, sia il male che li affligge, i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti sono e restano in Europa, con l’eccezione non particolarmente felice dell’Italia, la forza di gran lunga più importante e significativa della sinistra che esiste realmente, e non solo nelle ambizioni, o nei sogni, di chi ne vorrebbe una tutta nuova e diversa, magari così nuova, e così diversa, da non potersi neanche più definire sinistra. Persino Oskar Lafontaine, salutando entusiasta il successo della sua Linke, ha badato bene a chiarire che considererebbe un disastro una crisi distruttiva e autodistruttiva della Spd: non per una cortesia diplomatica che oltretutto proprio non gli appartiene, ma perché sa bene che a pagarne un prezzo terribile sarebbe tutta la sinistra tedesca ed europea, Linke naturalmente compresa. Ma proprio perché della sinistra che c’è le socialdemocrazie rappresentano la seppur danneggiatissima architrave, sulle loro spalle pesa un compito immane. Il compito non solo di rinnovarsi in profondità, ma di ripensarsi radicalmente, per ritrovare quello che hanno perduto, in primo luogo la fiducia di tanta parte della loro gente, e per avventurarsi su terreni sin qui sconosciuti. E di farlo avendo davanti a sé, nella grande maggioranza dei casi, una stagione di opposizione che si annuncia lunga e difficile per partiti che hanno il governo, o almeno una prospettiva ravvicinata di governo, nel loro Dna.
Non è detto che ci riescano, anzi, tutto (non solo il coro assordante dei conservatori) sembra parlare contro di loro, a cominciare dalla modestia delle leadership, tranne il fatto che il socialismo democratico nella sua lunga vita di leader mediocri ne ha avuti molti, e di crisi considerate mortali ne ha già traversate più d’una, ma ogni volta, quando tutto sembrava perduto, ha trovato il modo di lasciare disoccupati i suoi aspiranti becchini, di destra, di centro e di sinistra. Un ciclo politico, quello incarnato dal New Labour di Blair e, seppure in misura minore, dalle Neue Mitte, il nuovo centro, di Schroeder si è chiuso, e a scrivere la parola fine ha provveduto una crisi economica e finanziaria che ha colto peggio che di sorpresa tutte o quasi le socialdemocrazie, lasciandole senza parole proprio quando tutte o quasi le loro critiche di un tempo non tanto al capitalismo in generale, quanto a un capitalismo senza regole e senza contraltari, sembravano trovare una clamorosa conferma. Ha poco senso stupirsene, e stupirsi della disaffezione e della protesta del proprio elettorato tradizionale, se fino al giorno prima si sono cantate, con l’ardore dei neofiti, le magnifiche sorti e progressive del turbo capitalismo, dandosi come massimo obiettivo quello di diffonderne per quanto possibile i risultati, in termini di ricchezza, nella società.
E adesso? La tentazione dell’indietro tutta, che andrebbe di pari passo con la caccia al tesoro dell’identità perduta tra compromessi e cedimenti, e con una più o meno marcata radicalizzazione, è comprensibile e persino fisiologica: ma di sicuro una simile svolta non porterebbe troppo lontano. Se è il futuro del socialismo in Europa che ormai appare radicalmente in discussione, è del socialismo europeo del futuro che bisognerebbe cominciare a discutere. Possibilmente subito, in ogni caso senza attendere passivamente il prossimo disastro annunciato. E iniziando con il chiedersi, senza troppi giri di parole, di che cosa esattamente si sta parlando: dell’organizzazione del funerale di un illustre vegliardo, o delle terapie più indicate per rimettere in sesto un malato grave sì, ma vivo e magari persino più vitale di quanto si creda?
Il Corriere della Sera, 29 settembre 2009