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Franceschini: 10 discorsi agli italiani. Milano: discorso ai volontari

Abbiamo detto tante volte che vogliamo costruire un partito nuovo e aperto.
Un partito che corrisponda, non solo nella rappresentanza, ma nella sua essenza e nel suo modo di essere, alla società italiana.
Allora è giusto ripartire da qui.
Dall’incontro con le persone, con quei pezzi d’Italia a cui vogliamo parlare e a cui vogliamo dare voce. Perché il Pd che costruiamo sia davvero il loro partito.
Comincio questo viaggio dalla Stazione Centrale di Milano.
Comincio incontrando voi, il mondo della solidarietà, della cooperazione sociale, del volontariato, del terzo settore, del non profit, dell’associazionismo che rappresenta il tessuto connettivo più robusto e vitale del nostro paese.
Si tratta di una realtà che vive lontana dai riflettori. Che lavora quotidianamente nelle pieghe più nascoste della società. Che si occupa e si prende cura di ciò che spesso il potere pubblico trascura.
Che mette le mani e il cuore nella sofferenza e nel dolore di quel prossimo che altrimenti sprofonderebbe nella solitudine.
Perché voi siete lì dove c’è la vita.
Penso a quelle centinaia di volontari che fin dalle prime ore sono giunti in Abruzzo.
A chi è accorso fra le macerie, a chi si è occupato delle mense, a chi ha cercato di mettere in salvo le opere d’arte, a chi ha cercato di far sentire meno soli gli aquilani, con piccoli e grandi gesti, con tanta umanità.

Ho conosciuto molte esperienze del vostro mondo.
Ho ascoltato molte storie di straordinario spessore umano. Storie di silenzioso coraggio. Perché ci vuole coraggio per guardare in faccia la povertà, la sofferenza, il dolore. Talvolta la disperazione.
Ci vuole coraggio a restare lì dove ci sono soltanto malattia, emarginazione, disagio sociale.
Quando ho visitato un carcere, quando sono stato in un centro per malati terminali, quando mi hanno invitato in una comunità di ragazzi tossicodipendenti, lì ho trovato i volontari.
I loro volti, la loro forza, la loro speranza.
Ci sono parole che nell’impatto con la modernità sembrano aver perso il loro significato.
E’ difficile oggi parlare di solidarietà, di bene comune, di giustizia, di uguaglianza.
Almeno così appare guardando la superficie di questa modernità, segnata da modelli culturali costruiti sull’esaltazione di un individualismo che diventa egoismo.
Di una libertà che non vale niente se non è finalizzata alla ricchezza, al consumo, al successo personale.
Un successo che si costruisce sull’annientamento dell’altro. Spesso con ogni mezzo.
Questo dominio di modelli competitivi fino alla disumanità nelle relazioni personali, ma anche in quelle sociali, economiche, nazionali ed internazionali, a troppi appare una strada senza ritorno.
Ma non è così.
E’ proprio il tempo della crisi che stiamo attraversando a dirci che un’alternativa è necessaria e possibile.
Ed è possibile perché esistete persone che non si rassegnano, che cercano un’altra strada, come il mondo del volontariato e del terzo settore.
Questo giacimento prezioso di umanità che non si è arresa e che in questi anni ha continuato a lavorare, a costruire comunità, a produrre quel valore che è la coesione sociale.
E’ una storia che viene da lontano e che si alimenta di tante sorgenti diverse.
E’ la storia dell’associarsi dei cittadini, che ha dato fondamento alle nostre comunità e costruito le prime dimensioni dello spazio pubblico e della nostra democrazia.
Dalle congregazioni religiose, alle società operaie di mutuo soccorso, alle cooperative, agli oratori, all’associazionismo diffuso che ha interpretato i sommovimenti sociali degli anni 70 e 80.
Una storia che deve avere un futuro di crescita e espansione.
Per questo è giunto il momento di dire qualcosa di più.
Il volontariato, il terzo settore, il non profit non sono coloro che debbono rammendare gli strappi prodotti dalle inadempienze, dalle insufficienze della politica.
Le istituzioni non possono semplicemente utilizzare lo spirito di servizio e il valore della gratuità che questo vostro mondo esprime.
Ci sono nell’agenda parlamentare questioni molto delicate, sulle quali si misurerà la sincerità di chi tra noi, a parole, plaude alla vostra realtà ed al valore sociale che esprime, ma poi nell’azione concreta se ne dimentica.
Ci sono nodi da sciogliere, sul piano legislativo, che non possiamo continuare a rinviare.
E’ necessaria una riforma organica della legislazione del terzo settore, oggi troppo frastagliata, e il Parlamento deve poter vivere una nuova stagione costituente per il non profit. Per definirne i contorni, per coprirne gli spazi vuoti, per darne una visione coerente e compiuta. E’ sintomatico che il codice civile non preveda nessuna forma di impresa al di fuori di quella di profitto e che l’associazionismo diffuso dei cittadini che caratterizza la società italiana sia definito in negativo, come associazionismo non riconosciuto e non per i suoi meriti partecipativi.
Ma c’è una priorità assoluta: il 5 per mille, quello strumento grazie al quale tante vostre realtà vivono.
Il 5 per mille va stabilizzato subito, perché è uno straordinaria leva di sussidiarietà fiscale, un moltiplicatore di coesione sociale. Basta con la transitorietà.
Non può essere una norma da contrattare anno per anno in finanziaria. Non è una gentile elargizione della politica, ma un diritto dei cittadini.
Un modo per avvicinare tra loro cittadini, stato e società civile organizzata.
Ci sono in parlamento molte proposte e noi siamo pronti a votarle. Il governo ci dica quale è la copertura finanziaria e non perdiamo altro tempo, approviamolo subito con un iter accelerato.
Ma al 5 per mille si collega una riflessione più generale e più delicata che riguarda il rapporto tra la vostra realtà e le istituzioni di governo.
Intanto occorre dire che c’è un inaccettabile ritardo. Lo stato deve ancora assegnare alle associazioni il 5 per mille che i cittadini hanno scelto di destinare nel 2007.
E questa situazione sta provocando gravissime difficoltà a molte associazioni ed enti che su quei fondi e su quelle risorse avevano fatto affidamento. Non solo.
C’è come una diffidenza inspiegabile nei confronti del terzo settore, che si traduce in atteggiamenti punitivi quando si parla di trattamento fiscale.

So che c’è un tavolo aperto con l’Agenzia delle Entrate, dopo la pubblicazione di un testo vessatorio e soffocante nei confronti del non profit, che aumenta in maniera sproporzionata il carico burocratico sulle associazioni.

E che prefigura un accertamento fiscale a tappeto su tutte le organizzazioni del terzo settore. Mi auguro che si trovi una soluzione ragionevole, in grado di garantire, come giusto, trasparenza e regole certe.
Certo, colpisce questo governo che, mentre con il condono, lo scudo fiscale, premia i furbi contemporaneamente vorrebbe mettere sotto torchio le associazioni della solidarietà.

Lo dico al ministro Tremonti: se cercate gli evasori nel terzo settore avete sbagliato indirizzo. Se la vostra lotta all’evasione fiscale è questa avete sbagliato tutto.
Cercate i veri evasori e lasciate in pace chi dovreste soltanto aiutare.

Poi c’è un altro punto importante che deve essere al centro dell’azione politica e legislativa: il servizio civile.
Ci sono stati tagli drastici e incertezze: se si va avanti così nel 2011 quella che è una eccellenza italiana, considerata un modello dagli altri Paesi Europei, rischia di chiudere.

E’ assurdo, perché il servizio civile è una straordinaria palestra di cittadinanza, una occasione di crescita altamente formativa per i ragazzi e le ragazze che la vivono.
I giovani imparano a spendersi per il prossimo, a essere responsabili e partecipi della vita comunitaria, a voler bene all’Italia.
Le radici di questa esperienza si rintracciano nella migliore storia del nostro Paese: è la storia iniziata con quelle migliaia di ragazzi che accorsero in una Firenze ferita, devastata dalla furia delle acque, per aiutare la popolazione e salvare i tesori della città.

Quegli Angeli del fango che noi ancora bambini guardavamo dalla tv in bianco e nero, invidiando quei pochi anni in più che avevano consentito a loro e non a noi di essere là, sporchi e felici, ad aiutare gli altri.

E’ la storia del lungo cammino per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, un cammino fatto di scelte coraggiose, di processi, di incomprensioni.

Della testimonianza scomoda del dirompente “l’obbedienza non è più una virtù” di don Milani ai ragazzi che finivano in carcere perché rifiutavano le armi.
E’ la storia del movimento pacifista e non violento in Italia da Aldo Capitini a Tom Benetollo.
Ecco perché bisogna investire e credere nel servizio civile, che va rafforzato normativamente e finanziariamente.

Come si vede l’elenco delle cose da fare ma anche delle inadempienze della politica, delle promesse deluse, è lungo. E lo sapete meglio di me, perché lo vivete ogni giorno.
Mi chiedo quali siano le ragioni di questa strisciante ostilità. Di questa sorda incomunicabilità.
L’insensibilità di un ministro o di un governo possono fare molti danni. E li stanno facendo.
Tuttavia c’è qualcosa di più profondo.

C’è un deficit culturale che riguarda tutta la politica e rispetto al quale anche la sinistra deve saper fare autocritica.

Per troppo tempo, infatti, il rapporto tra le istituzioni politiche con le realtà non profit, a livello nazionale così come a quello locale, è stato di tipo contrattualistico: compriamo i vostri servizi, ma non vi riconosciamo altro ruolo oltre quello di fornitori o semplici esecutori. E questo, molte volte, in nome di un malinteso senso dell’autonomia.
Certo, il tema dell’autonomia dei corpi intermedi, delle forze sociali, delle aggregazioni che nascono dal basso e operano nelle nostre comunità è un punto qualificante della nostra cultura democratica.
Questo valore sta scolpito nella Costituzione.
Ma l’autonomia non è, e non può essere, irrilevanza politica.
Eppure non partiamo da zero. Un tratto di strada, il primo, lo abbiamo fatto.
E, lasciatemi dire, lo abbiamo fatto insieme.
Quando ero sottosegretario alle riforme ho lavorato assieme a molti di voi per riscrivere quell’articolo 118 della Costituzione che impegna le istituzioni a favorire “L’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli ed associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale sulla base dei principi di sussidiarietà”.
Sono orgoglioso di aver contribuito al riconoscimento costituzionale del diritto di essere cittadini attivi, a quella che credo sia stata una grande conquista.
Far conoscere, condividere e soprattutto applicare questa norma è la sfida che abbiamo davanti.
Se ci riusciremo sarà una rivoluzione.Ma anche qui, serve più coraggio.
Il coraggio di uscire da quello schema logoro e inadeguato che per troppo tempo ha semplificato tutto nel conflitto tra società e stato.
Più società e meno stato è uno slogan consumato, che non serve più a niente.
E che ci porta, anzi, fuori strada.
Diciamo, piuttosto, più società e più stato.

Abbiamo assistito in questi anni, impotenti, ad una deriva che ha demolito e fatto a pezzi l’idea stessa dello stato.
La destra berlusconiana, non tutta la destra, lo ha rappresentato come un nemico.
Come un’entità ostile che ti complica la vita e che ti deruba attraverso le tasse, che ti imprigiona nella burocrazia.

Questa operazione culturale, finalizzata alla difesa di interessi privati ben individuabili, ha avuto successo perché si è giocata sull’illusione che l’unica libertà possibile fosse fuori dallo spazio pubblico.

Perché questo è accaduto?
Perché lo stato, e più in generale tutto ciò che è pubblico, è apparso inefficiente, improduttivo. Perché i suoi apparati sono lenti, obsoleti. Spesso sovradimensionati.
E soprattutto perché lo spazio del potere pubblico è stato progressivamente occupato dalla politica. Dai partiti.
Guardiamo a ciò che accade nella Sanità, che è il simbolo di questa degenerazione.
Perché la sanità pubblica deve essere in mano ai partiti? Non le grandi scelte strategiche, perché quelle sono responsabilità politica, ma la nomina degli amministratori delle aziende sanitarie. Che a loro volta nominano i primari. E spesso non in base al merito ma in base alla fedeltà e all’appartenenza.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

E non è che l’intervento del privato in una situazione del genere serva a migliorare da solo le cose. Basti guardare alla gestione delle convenzioni. A quanti sprechi spesso si producono. A quanta corruzione sopravvive.

Se vogliamo cambiare davvero, abbandoniamo la falsa contrapposizione pubblico-privato e mettiamo mano ad una nuova idea di pubblico, ad una nuova organizzazione istituzionale, alla quale concorrano e della quale si sentano parte tutte le forze vitali della società.

A cominciare dalle organizzazioni della cittadinanza e della solidarietà.

Quando parliamo di un nuovo welfare, universalistico e in grado di garantire livelli essenziali delle prestazioni per tutti i cittadini, italiani o immigrati, costruiamolo con il concorso attivo del terzo settore che è più prossimo ai bisogni veri delle persone e delle comunità.

Quando parliamo di una sanità disintossicata dall’invadenza partitocratica, costruiamo ad un modello dove gli utenti, i cittadini, le loro associazioni, abbiano un ruolo attivo nella gestione dei servizi, nelle scelte strategiche e nel controllo.

Quando parliamo della riforma dei servizi pubblici locali non affidiamoci solo al culto della liberalizzazione ad ogni costo come soluzione ad ogni problema. I risultati positivi di un’azienda che eroga servizi pubblici essenziali non possono essere basati solo sugli utili che distribuisce ma devono essere valutati sulla qualità dei sevizi e sulla loro accessibilità a tutti. E allora perché non costruire in questi campo un coinvolgimento pieno degli utenti?

Acqua, luce gas, igiene ambientale sono il contenuto concreto di quei diritti di cittadinanza che contraddistinguono la modernità. E di questi diritti i cittadini non sono clienti.

Coinvolgere i cittadini e le loro associazioni il più possibile nella gestione della cosa pubblica significa non solo garantire trasparenza e controllo, ma significa soprattutto risvegliare un senso di cittadinanza attiva. Significa scuotere una società passiva, che rischia di essere sempre più composta di telespettatori e consumatori, con iniezioni di responsabilità e coinvolgimento.

Ma perché tutto ciò sia possibile è necessario liberare spazi ad un nuovo protagonismo del civile.

La politica dei partiti deve fare un passo indietro da luoghi occupati da troppo tempo. Oggi abusivamente.

Se ieri una sovraesposizione dei partiti poteva essere giustificata dalla necessità di ricostruire una democrazia fragile, dando forza e rappresentatività a istituzioni deboli, oggi l’Italia è diversa.

I partiti non sono più gli unici soggetti dotati di capacità di rappresentanza. Certamente non sono i più forti, né, purtroppo, i più autorevoli.

Invece, sono emersi altri soggetti, altre espressioni ed articolazioni della vita democratica.

Soggetti che cercano un loro protagonismo, anche istituzionale.

Credo che il tema che dovremmo porre al centro di una riflessione coraggiosa e innovativa sia proprio quello di come ricostruire una grande alleanza sociale per la ristrutturazione di un’idea diversa di stato e di interesse pubblico.

Ripeto: questo non vuol dire in nessun modo negare l’autonomia del sociale.

Al contrario. La strada di una vera sussidiarietà è fatta di nuova partecipazione.

Di cittadinanza attiva e responsabile.

Di una nuova cultura dei diritti e dei doveri che non considera più la persona soltanto per ciò che riesce a produrre o a consumare.

Di apertura alle iniziative e alla capacità propositiva di movimenti e associazioni.

Occorre cambiare il profilo di molte istituzioni di rilievo pubblico prevedendo il coinvolgimento delle autonomie sociali in molti settori strategici.

Penso in particolare alla Rai.

La mia proposta è che nel consiglio d’amministrazione della televisione pubblica sia rappresentata la voce del sociale. Perché trovi spazio nella programmazione anche quell’Italia positiva, che agisce in silenzio, che è piena di valori e testimonianze straordinarie e che non trova spazio in un palinsesto piegato alle sole logiche della audience e del mercato pubblicitario.

Per una nuova politica non si tratta dunque di sostituire una nomenclatura vecchia con una nuova ma si tratta di cambiare davvero.

Cambiare la politica per cambiare l’Italia. Investendo su quelle risorse personali e associative che hanno tenuto vivi valori positivi sotto la crosta di una società impregnata di egoismi, paure e indifferenza.

Cambiare il rapporto tra cittadini, potere e comunità: questa è l’alternativa ad un sistema in crisi.

Non si tratta solo di regole.

Molto spesso la politica si riempie la bocca di valori.

Ma i valori si vivono, non si predicano.

Nel volontariato abbiamo esempi bellissimi di cosa vuol dire vivere i valori, anche quando è scomodo. Anche quando è pericoloso. Anche quando questa testimonianza può essere pagata con la vita.

Penso a quella straordinaria esperienza di solidarietà attiva che è la nostra cooperazione internazionale.

Penso a quei nostri volontari che in tutto il mondo dimostrano con la loro vita che è un altro mondo è possibile. Che la pace è possibile. Che la giustizia è possibile. Che la lotta alla fame è possibile.

E noi, grazie ai tagli del governo, siamo diventati l’ultimo paese europeo nella classifica per gli aiuti ai paesi in via di sviluppo.

Eppure le politiche di cooperazione non sono solo un dovere morale ma anche una precisa scelta strategica. Per poter gestire con i paesi in via di sviluppo temi decisivi di interesse comune: l’immigrazione, la tutela ambientale, l’uso delle risorse naturali o la gestione dei conflitti.

Lasciar morire la cooperazione è un gravissimo errore che indebolisce la nostra politica estera e la nostra credibilità internazionale.

E invece bisognerebbe investire con risorse e creatività, aiutando ogni strumento nuovo, penso al microcredito e alla finanza solidale.

E l’ultima cosa la voglio dire su quei volontari che operano sulla frontiera più difficile: quella dove gli scenari sono di guerra. Come in Afghanistan.

Siamo orgogliosi della partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali. Di ciò che fanno i nostri militari per la pace, pagando talvolta con la vita.

Ma quelle missioni avrebbero un profilo diverso se, accanto ai militari, non ci fossero le donne e gli uomini della cooperazione civile.

Sta prendendo corpo la tendenza a centralizzare la responsabilità delle missioni internazionali nelle mani dei comandi militari o alle dipendenze della Difesa, togliendo autonomia alla cooperazione civile.

Questa scelta può essere talvolta giustificata da ragioni di sicurezza. Ma se diventasse una scelta politica sarebbe un gravissimo errore, che indebolirebbe il nostro intervento.
Usciamo da vecchi retaggi ideologici. Abbandoniamo antiche, reciproche diffidenze. Sostenere le missioni militari non significa essere contro la pace.
Rivendicare l’autonomia della cooperazione civile non significa essere antimilitaristi.
Ma se un intervento vuole essere davvero umanitario, vale di più una carezza ad un bambino di dieci bombe intelligenti. E questo lo sanno anche i nostri soldati.

Ecco.

Ci sono modi diversi di costruire il bene comune che è il bene di tutti, nessuno escluso.
Il modo in cui lo fanno le volontarie e i volontari esprime qualcosa di più e di diverso.
Qualcosa che sfida l’opprimente dittatura del pensiero unico.
Qualcosa che rovescia le leggi di questo tempo dominato dall’imperativo del profitto. Dall’obbligo dell’apparire per essere. Dalla necessità di strillare anche quando non si ha nulla da dire. Dalla competizione tra diseguali.
I volontari agiscono nel silenzio. Fanno e non dicono.
Danno senso a quella parola antica e attualissima che è servizio.
Dimostrano ogni giorno cosa sia la gratuità e quale straordinario valore abbia.
Perché non tutto si compra o si vende.
Perché non tutto è mercato.

Il premio Nobel Joseph Stiglitz teorizza che il tradizionale parametro del Pil è inadeguato a misurare lo stato di salute di un Paese. Lo aveva scritto Bob Kennedy più di quarant’anni fa. Stiglitz dice che ci sono altri tre parametri che devono essere usati per misurare il Pil: tempo, ambiente e felicità.

Perché ci riguarda la qualità dell’aria che respiriamo, del cibo che mangiamo.
Perché è inutile guadagnare più degli altri se poi ci si ammala di asma bronchiale, si rimane imbottigliati nelle code, se non abbiamo mai scambiato due parole con i nostri vicini e ci sentiamo soli.

Il vostro contributo alla felicità forse non è facile da misurare, ma c’è e fa la differenza della qualità della vita.

Ho conosciuto un ragazzo che aveva scelto di trascorrere le sue vacanze come volontario in una missione in Africa. Gli ho chiesto il perché. Mi ha risposto: per egoismo. Per la mia felicità, perché ho avuto molto di più di quello che ho dato.
Abbiamo molto da imparare dal mondo del volontariato.
Non vi siete arresi, non avete rinunciato a un’idea diversa del mondo, delle comunità, delle persone. Della democrazia.
Non avete smesso di coltivare sogni e pensieri lunghi.
Di guardare lontano.
Oggi la politica travolta dal disincanto e dal cinismo sembra aver rinunciato all’aspirazione a un mondo migliore.
Come se fosse una ingenuità, una cosa di cui sorridere.

Se fossimo più ingenui e più innocenti forse saremmo anche più coraggiosi.
E questo è il mio sogno: un Partito democratico coraggioso e libero.
Che non dimentica nemmeno per un minuto di essere nato per cambiare tutto.
E che vuole cominciare a cambiare tutto.
Adesso.

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