«Sono forse diventato di sinistra, ho forse perso la testa solo perché penso che chi non nasce in Italia, ma magari frequenta nel nostro Paese un intero ciclo di studi, possa diventare cittadino italiano anche prima dei 18 anni? Ditemi, è uno scandalo pensare questo, è un’eresia?». Eccolo Gianfranco Fini in mezzo a quella che dovrebbe essere la sua gente, un po’ ex An, un po’ ex Forza Italia. Eccolo davanti alla platea della festa Pdl di Milano. Una platea, molto in sintonia con il ministro Maroni, ospite 24 ore prima del presidente della Camera, una platea deliziata dall’intervista, non propriamente ficcante, che il direttore del Tg1, Augusto Minzolini ha fatto, solo qualche ora prima, a Renato Schifani. Una platea che Fini non blandisce, di cui non cerca il consenso, anzi la provoca, ribadendo ciò che, sulla cittadinanza, pensa da tempo. «Dico forse un’eresia?». «Sì!», gli urla con rabbia una signora dalla terza fila, quasi fosse un esponente dell’opposizione, un nemico. Chi rumoreggia, chi applaude: divisi, spiazzati, dalla franchezza, dalla ruvidezza dell’ex leader di An. No, non è impazzito, non è diventato un «compagno», semplicemente Fini rivendica il diritto a riflettere pubblicamente, politicamente, su un tema scabroso, difficile, per la destra. E avverte: «Non accetto scomuniche preventive da organi di giornali (il riferimento è alla stampa di area governativa, ndr). Né accetto che mi si dica che la cittadinanza non è in agenda, non è nel programma (più o meno questo aveva sostenuto il suo collega Renato Schifani, ndr). Continuerò a porre la questione e aspetto di sentire argomentazioni serie, non risibili». Applausi, borbottii.
Si aggiusta la cravatta, accavalla le gambe, si strofina le mani, mette in conto il dissenso con un sorriso tra l’amaro e il soddisfatto sulle labbra. Sa anche di incassare nuovi, appassionati, estimatori come la giovane Rasha, 28 anni, cittadina italiana, genitori egiziani. Prima del dibattito, cui partecipa il presidente della Camera, Rasha gli viene incontro, il capo coperto dallo jiab: «Sono stata candidata con la sinistra radicale alle provinciali, ma lei mi è sempre piaciuto perché pensa prima di parlare». Flash dei fotografi: Fini e la musulmana.
La domanda è questa, mutuando Sarkozy: «Di chi è l’Italia?» «L’Italia è degli italiani – si autorisponde l’ex pupillo di Almirante – e se qualcuno pensa che io non creda a questa solare banalità è un problema suo, non mio». Silenzio in platea, tutti si chiedono dove va a parare. Sul palco, coordinati da Gianni Riotta, ci sono Bombassei (Confindustria), Bonanni (Cisl), c’è Giulio Tremonti e, ospite in casa d’altri, Enrico Letta, attento a non danneggiare Fini con il suo sostegno («Gli voglio bene»). Sarà il ministro dell’Economia a tributare un omaggio, irrituale, forse eretico, al cofondatore del Pdl: «Le posizioni di Fini sono generose e coraggiose. Credo che dobbiamo discuterle anche se le cose giuste possono diventare sbagliate nel momento sbagliato».
Quasi un assist, i due si sorridono, bisbigliano complici. Cupe le facce in platea di Cicchitto, La Russa, dell’onorevole Ravetto, dei berlusconiani doc. L’Italia è degli italiani, dice Fini. Ma ci sono anche quattro milioni di stranieri «ed è più giusto che a diventare italiani siano coloro che amano il nostro Paese». Invece che una carta bollata dopo 10 anni, non è meglio un test d’amore per la nuova patria dopo «7, 5 anni», un esame di lingua, storia, geografia, il giuramento sulla Costituzione, anche il servizio militare? Ipotizzare questo è «uno scandalo?», chiede Fini alzando la voce. Da lassù, dal palco, vede quella signora che fa no con la testa, che disapprova. E allora le punta il dito contro: «Signora, poi, però, non ci si deve commuovere davanti agli atleti stranieri quando vestono la maglia azzurra!». Duro, aggressivo («Trovo stupido mettere in contrasto una politica di rigore con i clandestini con una reale politica di integrazione per gli stranieri regolari»). Determinato a far valere la sua diversità, non solo sulla cittadinanza: attacca le gabbie salariali, denuncia la deriva dei partiti diventati comitati elettorali. Assiste, freddo, alla progressiva disgregazione, anche dei rapporti umani, dentro il suo ex partito. Non ha nemmeno finito di parlare e La Russa attacca i peones «estremisti» beccandosi con Fabio Granata, finiano doc, autore della proposta di legge per accelerare la cittadinanza. È stanco il rito della visita agli stand della festa, stanche le chiacchiere con alcuni ex di An. Battute su Totò, sul colore delle cravatte, non c’è molto da dirsi. Fini è proiettato verso un’altra destra e non fa niente per nasconderlo.
******
Immigrati, Maroni attacca la Ue Fini: sulla cittadinanza vado avanti
Il ministro dell’Interno contestato a Milano. Tensione nel centrodestra
Alfano sui giudici critici con il reato di clandestinità: “Non possono eludere la legge”
Amato e il nodo di chi chiede asilo: “Anche gli altri Paesi devono farsene carico”
di LIANA MILELLA
Maroni e Fini, tutti e due a Milano, scuotono il sabato della politica. Il primo insiste nella polemica contro i magistrati che «boicottano» (come dice il suo sottosegretario Mantovano), il reato di clandestinità. E si scaglia contro la Ue colpevole di «aver agito poco e male» contro l’immigrazione. Dalla platea un gruppo di 7 donne lo contesta e grida «buffone, no ai respingimenti». Il presidente della Camera entra ancora in rotta di collisione con il Pdl sulla cittadinanza: «Chi ama l’Italia ha anche diritto di diventare cittadino italiano. Senza aspettare 10 anni, ma solo 5».
Parla alla festa della libertà Gianfranco Fini, e la platea rumoreggia. Ma lui insiste: «Cosa vuol dire amare l’Italia? Dimostrare di parlar bene l’italiano, conoscere la nostra storia, sapere che Trieste è più a nord di Palermo, servire la nostra patria con le armi». Diventare cittadino non è dunque una faccenda di carte bollate, ma un giusto diritto per chi vive correttamente nel nostro Paese. Nel Pdl i distinguo sono immediati, a cominciare da Giulio Tremonti: «È decisivo il fattore tempo, e la cosa giusta nel tempo sbagliato può diventare sbagliata». Fini l’ha messo nel conto: «Sono diventato di sinistra e ho forse perso la testa? Non mi considero un eretico e discutere non ha mai fatto male a nessuno».
Un mezzo appoggio gli arriva da Ignazio La Russa che, però, prende le distanze da chi, Granata e Sarubbi, deposita la proposta di legge per anticipare la cittadinanza. Per un La Russa che cita «la generazione Balotelli» a vantaggio di Fini, ci sono ex forzisti ed ex colonnelli di An che dicono no, da Gaetano Quagliariello («Dopo 5 anni la cittadinanza non gliela voglio dare»), a Maurizio Gasparri («Dieci anni è un termine giusto»).
Due ministri contro. Il leghista Roberto Maroni è per la linea dura sull’immigrazione anche a costo di andare contro i magistrati con cui ha sempre avuto buoni rapporti. Lui che si è battuto per limitare i danni nella legge sulle intercettazioni, ponendo un aut aut se non venivano introdotte le richieste del procuratore Piero Grasso, ora rimprovera alle toghe di non applicare il reato di clandestinità. Il Guardasigilli Angelino Alfano sta con lui: «Una cosa è interpretare la legge, un’altra eluderla. Maroni non ha messo in dubbio il diritto e il dovere dei magistrati di interpretare le leggi, ma è chiara la volontà del legislatore nel caso della clandestinità». E dunque niente ricorsi alla Consulta.
Maroni insiste. Ripete che il reato va applicato e poi passa a dolersi ancora della Ue. «La Commissione ha avuto una voce flebile e poco autorevole, lasciando ai singoli Paesi l’onere di gestire per conto loro la questione». Al contrario, «il problema dell’immigrazione è di tutta l’Europa e bisogna trovare una soluzione globale». Parte la contestazione. Sette donne, striscioni bianchi e grembiuli macchiati di rosso, protestano, tra loro c’è Patrizia Quartieri, consigliere comunale di Prc a Milano, e poi esponenti dell’Arci. La polizia non va per il sottile e identifica chi si è schierato apertamente contro Maroni. «Avete fatto il vostro show, grazie per il contributo», replica lui. E va avanti. Il predecessore Giuliano Amato pare dargli ragione quando, sul diritto d’asilo, afferma che «i richiedenti, da qualunque Paese entrino, poi dovranno essere distribuiti in modo equo tra i vari Stati».
La Repubblica 27.09.09