Gli anziani ricordano che durante i funerali del Grande Torino l’Italia intera si arrese al dolore. Saracinesche abbassate e lutto al braccio, da Bolzano a Palermo. Un senso di sgomento collettivo, immortalato in pagine stupende da Indro Montanelli, che raccontò una partita di calcio giocata in piazza San Marco dai ragazzini veneziani: si passavano il pallone evocando i nomi dei caduti. Il lutto allora era il Lutto.
Scavava nelle persone e restava aggrappato per sempre ai fili della memoria. Ma ancora negli anni Settanta la morte di un Papa o una strage terrorista provocavano le stesse reazioni solenni. La tv di Stato dettava la linea, abolendo di colpo i programmi di svago per trasmettere musica classica, mentre le sale da ballo spegnevano le luci e il silenzio regnava assoluto nelle piazze e dentro gli stadi. Era tale la convinzione che il lutto dovesse avere quel genere di struttura tragica che il giorno in cui a Dallas venne assassinato Kennedy i giornali italiani si rifiutarono di pubblicare gli articoli dei loro inviati, che testimoniavano invece il disinteresse dell’America profonda per lo storico evento, surclassato dal campionato di baseball.
Poi il lutto ha incominciato a cambiare anche qui. È successo quando le immagini hanno preso il posto delle parole e le emozioni quello dei sentimenti. Le immagini e le emozioni sono potenti, ma brevi e superficiali. Come certi temporali estivi che sconquassano il suolo ed evaporano in fretta, senza penetrare in profondità e lasciando la terra più arida e assetata di prima. Nessun evento recente, a parte le Due Torri, è apparso abbastanza memorabile da coinvolgere intensamente una comunità intera. Nessun evento, nemmeno la morte di sei soldati a Kabul. La rappresentazione del dolore che è andata in scena ieri ci ha mostrato due Italie. Quella ufficiale, raccolta lungo il corteo delle bare, nella basilica di san Paolo e nelle tante chiese italiane, come la Gran Madre di Torino, che alla stessa ora si sono riempite di militari. E l’Italia dei telespettatori, la nostra Italia, che ha continuato a lavorare e vivere come sempre. Dove le uniche serrande abbassate erano quelle dei negozi chiusi per turno e molte scuole non avevano neppure la bandiera a mezz’asta. Tutti abbiamo dato un’occhiata ai telegiornali, alla ricerca di un pretesto per commuoverci, purché fosse un pretesto in grado di farci sentire meno bellicosi e più buoni. Lo abbiamo trovato in due bambini. Uno di due anni, l’innocenza assoluta, che indica la bara del papà quasi fosse un gioco. E l’altro di sette, l’infanzia resa adulta dal dolore, che corre sotto l’altare della chiesa per accarezzare il legno che racchiude le spoglie di suo padre. Ci siamo commossi, innaffiando il fazzoletto come il nostro premier in prima fila: stavolta ci ha rappresentati proprio tutti. Abbiamo pianto, ci siamo soffiati il naso. Poi abbiamo chiesto in cucina cosa c’era per secondo. È normale, funziona così ed è persino sciocco scandalizzarsi di questa incapacità cronica di stare dentro le situazioni per più di un attimo. La stessa incapacità che portava la conduttrice di un telegiornale a decantare con occhio umido gli eroi di Kabul e, girato il foglietto, ad assumere un’espressione da maliarda per svelarci l’ultimo gossip post mortem su Lady Diana e l’ex presidente Valéry Giscard d’Estaing.
Il simbolo plastico del cambiamento rimane l’uso dell’applauso. Fu inventato per sottolineare un’approvazione, mentre oggi si direbbe che la sua funzione principale consista nel coprire i baratri aperti dal silenzio, questa brutta bestia che ci induce a pensare, quindi fa paura e va rimossa come la morte. Le persone che fuori dalla basilica applaudivano le bare erano convinte in buona fede di esprimere solidarietà. In realtà stavano scacciando il dolore che passava dinanzi ai loro occhi, temendone il contagio. Ci avete fatto caso che i familiari delle vittime, gli unici a soffrire davvero, non applaudono mai?
Eppure sarebbe stucchevole rimpiangere il bel lutto che fu. Ogni epoca ha le sue rappresentazioni. La nostra ha espulso il sacro e con esso i riti comunitari che gli davano un’aura di credibilità. Si pattina leggeri sulla superficie, affastellando emozioni e mescolando ricordi: fra sei mesi non sapremo più se la tragedia di Kabul è accaduta prima o dopo quella di Nassiriya. D’altronde tutti si rammentano in modo vivido il Vietnam, pure chi non c’era, mentre delle due guerre irachene resta una macedonia di sensazioni in qualche angolo della testa. Proviamo di tutto, ma dimentichiamo anche tutto. Persino la nostra bandiera. Per onorare i caduti, il Pd del Lazio ha stampato un manifesto nero con striscia rossa, bianca e verde: i colori dell’Ungheria.
La Stampa, 22 settembre 2009