Nei primi giorni di ottobre la Corte costituzionale giudicherà se la legge n. 124 del 2008 (il cosiddetto lodo Alfano) sia o meno conforme alla Costituzione della Repubblica. In quella legge è disposta la sospensione dei processi penali contro le quattro più alte cariche dello Stato, in esse compresa ovviamente quella del presidente del Consiglio. Una interruzione per tutta la durata della carica.
La legge del 2008 è la seconda edizione, riveduta e corretta, di un’altra legge che aveva la stessa funzione di scudo penale. Era la legge n. 140 del 2003, che però era stata bocciata, dopo appena sette mesi di vita, dalla Corte costituzionale. Ma la Corte non aveva pregiudizialmente respinto la ragione politica di quella legge. Anzi: aveva riconosciuto come «interesse apprezzabile» la «esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle rilevanti funzioni connesse a quelle cariche». Un interesse, aveva per aggiunto la Corte, «che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto».
Senonché in quella legge, pur politicamente «apprezzabile», quella «armonia» non c’era. Così com’era stata costruita, quella «sospensione» violava alcuni di quei principi, e alla Corte bastò la constatazione preliminare dei difetti di legittimità di quello specifico scudo , per affondare la legge, «assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale». E assorbito anche un referendum abrogativo di quella stessa legge che, nello stesso giorno, era stato dichiarato pienamente ammissibile . Ma che era divenuto privo di oggetto perché le norme che avrebbe voluto abolire avevano ora cessato la loro efficacia.
Quella sentenza era una pietra tombale su tutti i lodi di questo mondo? No. Sia perché restavano in piedi processi penali che continuavano a pesare sul sereno svolgimento di funzioni di vertice governativo. E sia perché restava in piedi l’interesse apprezzabile alla protezione di quelle funzioni, come era stato riconosciuto dalla Corte costituzionale. Era quasi inevitabile però che, incombendo scadenze giudiziarie (e anche la minaccia ritorsiva di un blocco generale di tutti i processi penali) un nuovo lodo venisse approvato in fretta e furia, cercando di ripulire lo scudo dai difetti pi vistosi che ne avevano determinato la caduta.
Era però altrettanto inevitabile che giudici penali, a Roma e a Milano, denunciassero alla Corte anche la nuova legge. Essi segnalavano la persistenza di vizi contro la Costituzione in quella barriera eretta tra i giudici e le alte cariche dello Stato. La pulizia richiesta dalla Corte non era stata, insomma, completa. E segnalavano soprattutto, esplicitamente, una questione di fondo alla quale la Corte questa volta non avrebbe potuto sottrarsi con l assorbimento e con il non detto .
La questione di fondo è: una garanzia di immunità penale per i vertici costituzionali dello Stato può costruirsi senza innovare la Costituzione? In altri termini, l’armonia con i principi fondamentali dello Stato del diritto (che è la condizione di base a cui la Corte ha subordinato, nella sentenza del 2004, ogni ragione politica ) può considerarsi rispettata con una semplice legge ordinaria? Una legge che sfugga quindi alla trasparenza, ai quorum, ai tempi e all’eventuale giudizio popolare: a tutte le caratteristiche, cioè, di una legge di revisione costituzionale?
Nella Costituzione non esiste, in effetti, alcuna garanzia di questo tipo per i reati comuni imputabili alle più alte cariche dello Stato. C’è solo una procedura speciale per i «reati politici, commessi da membri del governo nell’esercizio delle loro funzioni». E l’art. 96 espressamente prevede per questa procedura «norme stabilite con legge costituzionale». La domanda allora è: per tutelare le alte cariche anche contro processi per reati comuni, la Costituzione può essere integrata con una legge approvata a maggioranza semplice? Una legge che ha l’effetto di creare per tali cariche un privilegio ancora più incisivo, dato che le copre per fatti che non riguardano le loro funzioni ma la loro privata condotta: e quindi con una più vistosa eccezione ai principi di uguaglianza e di responsabilità personale, rispetto alla condizione dei normali cittadini? Dopo che l’opinione pubblica è stata lungamente esasperata contro i privilegi, veri o presunti, della casta politica, può giustificarsene un altro e nuovo, nella forma ritenuta di dubbia legittimità dai giudici di Roma e di Milano? Può una tale legge che modifica la Costituzione, aggiungendovi una tutela che essa non aveva previsto essere, dunque, approvata senza le garanzie della revisione costituzionale?
E a queste domande assai stringenti che deve rispondere l’imminente giudizio della Corte. Tuttavia l’interrogativo più critico è un altro. Il vero punto di diritto infatti è che con questa sospensione viene impedita, nel suo ordinario svolgimento, una funzione costituzionale: quella giurisdizionale. Ed è sospesa non per una delle tante cause tecniche che possono determinare la sospensione processuale, ma per una ragione di politica costituzionale ben precisa: il sereno svolgimento di altre funzioni dello Stato. Si introduce, cioè, un rapporto di equilibrio assolutamente nuovo nella Costituzione. Perché si dice che, tra il giudicare e il governare, è l’esercizio di quest’ultima funzione a dover prevalere, sia pure solo per il tempo della durata della carica. Torna, allora, in termini ancora più netti la domanda: può tale misura di diverso equilibrio costituzionale essere stabilita con una legge ordinaria, cioè senza cambiare la Costituzione?
Un costituzionalismo a noi sempre assai vicino, come quello francese, ha accolto, nel 2007, la medesima ragion di Stato delle democrazie elettorali , nel senso di riconoscere al presidente della Repubblica (e solo a lui) una temporanea immunità dai processi. Ma lo ha fatto modificando espressamente l’art. 67 della sua Costituzione: non tacitamente, con una qualsiasi legge ordinaria. Non si riesce a capire perché la nostra attuale, larghissima maggioranza parlamentare non abbia, sia pure a sanatoria, seguito quella via.
Un altro costituzionalismo, anche esso a noi assai vicino, quello tedesco, ha visto, il giugno scorso, il suo Tribunale costituzionale emettere una monumentale e aspra sentenza, con possibili effetti sul destino istituzionale non solo della Germania ma dell’intera Unione europea. Una sentenza criticabile nel merito quanto si vuole: ma che non ha guardato in faccia nessuno. E che rende ora la vita più difficile ai governi e alle istituzioni di tutta Europa. Essa ha per anche indicato le vie di soluzione per costituzionalizzare procedure parlamentari insufficienti.
Nella sua sfera di insindacabile autonomia , la nostra Corte costituzionale dovrà misurarsi anche con questi esempi.
La Repubblica, 22 settembre 2009