L’allarme di Gordon Brown conferma le preoccupazioni di Ban Ki Moon, che ha voluto far precedere la 64esima Assemblea generale delle Nazioni Unite da un forum sui cambiamenti climatici che, nelle intenzioni del segretario Onu, dovrebbe scongiurare il pericolo che la prossima conferenza internazionale di Copenaghen si trasformi in un flop. A dicembre, in Danimarca, si deciderà sul dopo Kyoto, su cosa si dovrà fare – cioè – dal 2012 in poi per evitare la catastrofe ambientale. E oggi – tanto per rinfrescar loro la memoria – verranno proiettate davanti ai rappresentanti dei 192 Paesi invitati al summit Onu, immagini shock sugli scenari apocalittici dell’effetto serra. Per superare il rischio che Copenaghen si concluda con un nulla di fatto, il premier britannico parteciperà in prima persona all’appuntamento. Un appello agli altri leader, nella sostanza.
IL NODO GEO-POLITICO
Insomma, è la politica che deve scendere in campo. Sono i capi di Stato e di governo che dovranno impegnarsi in prima persona. Copenaghen è un’occasione da non perdere. E i diversi paesi, a cominciare da quelli più industrializzati, non potranno farsi rappresentare soltanto dai ministri dell’Ambiente. In un articolo che uscirà sulla rivista Newsweek, Brown afferma che «le trattative» sul dopo Kyoto, il trattato scadrà nel 2012, «stanno procedendo troppo lentamente» e che «l’accordo finale è in grave pericolo ». Per questo i leader mondiali «dovranno superare le singole differenze ». Permangono forti divergenze tra i paesi emergenti – Cina, India, ecc. – e quelli più industrializzati sui tagli alle emissioni che creano il riscaldamento globale.
Oggi, dopo il summit informale sul clima, ne parleranno in una cena ristretta Ban Ki-Moon e 25 capi di Statoe di governo dei paesi maggiormente «inquinanti». Ci sarà Obama e ci sarà anche Berlusconi, che arriverà a New York nel pomeriggio con un volo di Stato, dopo il forum dei 192 paesi sull’emergenza climatica. Il governo italiano, in realtà – dopo il passaggio degli Usa dalle posizioni anti Kyoto di Bush alla politica ambientalista di Obama – sembra disorientato. Di qui al 2012, per rispettare gli accordi internazionali, il nostro Paese dovrebbe ridurre del 13% le emissioni di gas serra, ma Palazzo Chigi ha chiesto – senza successo – dilazioni. E se l’Europa – Brown, Merkel, ecc. – si orienta verso una politica internazionale di drastiche riduzioni, l’esecutivo italiano sembra allinearsi più alla Polonia e ad altri paesi dell’Est. Senza contare che il governo è tagliato fuori dalle trattative informali che vedono molto attivo lo stesso Obama. Il summit Onu di oggi, in ogni caso, non avrà sbocchi decisionali formali. «Il cambiamento climatico è la maggiore questione geo-politica dei nostri giorni – spiega il sito Onu (che promuove iniziative nelle più importanti capitali del mondo) – con un impatto in tutti i campi, dalla salute della nostra economia, a quella dei nostri cittadini, fino alla sicurezza energetica, allo sviluppo, alla sicurezza internazionale». Se si dovesse perdere l’opportunità di proteggere il pianeta, scrive Brown, «non vi sarebbe una seconda chance nel prossimo futuro, nessun modo per tornare indietro».
Per capire se gli sforzi del segretario generale dell’Onu avranno successo, basterà ascoltare gli interventi di Usa e Cina, che assieme contribuiscono al 40% delle emissioni di gas nocivi. Le Nazioni Unite, in ogni caso, intendono non dare tregua. In questi giorni, ad esempio, durante pranzi e seminari, i delegati dei Paesi più inquinanti siederanno accanto a quelli esposti maggiormente ai rischi del cambiamento climatico, come quelli delle Maldive, che corrono il pericolo di essere sommerse dal mare. Un modo per promuovere un esame di coscienza collettivo, prima che sia troppo tardi per il pianeta
L’Unità, 22 settembre 2009
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Sull’argomento segnaliamo anche gli altri articoli dello speciale dell’Unità
“I ghiacci si sciolgono, aperto il passaggio a nord-est”, di Tony Paterson
È stato uno degli obiettivi mai raggiunti delle nazioni che dominavano i mari e gli oceani sin dagli albori dei commerci via mare, ma per quasi 500 anni l’idea è stata ritenuta un sogno impossibile. Ora, grazie al riscaldamento globale, il sogno sta per diventare realtà.
Nel giro di pochi giorni un viaggio che costituisce, al tempo stesso, una enorme conquista commerciale e una inquietante pietra miliare sulla strada della catastrofe ambientale, dovrebbe essere portato a termine per la prima volta. Nessuna imbarcazione commerciale è mai riuscita ad attraversare il passaggio a nord-est, la mitica rotta attraverso il mare Artico che collega l’Oceano Atlantico al Pacifico molto più direttamente della tradizionale rotta a sud. Durante tutto il corso della storia gli esploratori ci hanno provato e hanno fallito e taluni hanno anche perso la vita.
Ma tra pochi giorni le navi tedesche, Beluga Fraternity e Beluga Foresight, dovrebbero entrare nel porto olandese di Amsterdam. Sarà la fine di un viaggio di due mesi dalla Corea del Sud attraverso le pericolose acque del mare Artico reso navigabile da uno scioglimento senza precedenti dei ghiacci. La nuova rotta potrebbe trasformare le fortune economiche della Russia. Durante tutto il corso della storia, la ricerca da parte della Russia di un porto in acque calde in grado di garantire rotte praticabili tutto l’anno ha dominato la geopolitica della regione.
Ma ai vantaggi economici fa da contrappeso il disastro ambientale evidenziato dall’apertura di questo tratto di mare. «È l’ennesima prova che il cambiamento climatico è già tra noi», dice Melanie Duchin, capo spedizione nel mare Artico, imbarcata sulla nave di Greenpeace Arctic Sunrise, e aggiunge che quanto è successo ha spinto i leader di tutto il mondo nel dicembre scorso a Copenhagen a concordare tagli pesanti alle emissioni di gas serra. «Non c’è ragione di festeggiare; è invece il momento di agire», sostiene Melanie Duchin.
Il viaggio estivo attraverso il passaggio a nord-est delle due imbarcazioni da 12.000 tonnellate aveva lo scopo di trasportare 3.500 tonnellate di materiale da costruzione e pezzi di ricambio per una centrale elettrica in Siberia. La nuova rotta dall’Estremo Oriente all’Europa è piu’ breve di oltre 4.000 miglia marine rispetto alla tradizionale rotta che attraversa il canale di Panama. I responsabili della marina mercantile russa si augurano che questa impresa dia il via ad una sorta di “corsa all’Artico” con la conseguenza di rendere la rotta nord, almeno d’estate, una valida alternativa rispetto ai canali di Suez e Panama. I responsabili della marina mercantile russa si sono offerti di ridurre i diritti dovuti alle navi rompighiaccio nel passaggio a nord-est per incoraggiare le principali compagnie di navigazione mercantile a servirsi della nuova rotta.
Nils Stolberg, presidente del gruppo Beluga con sede a Bremen organizzatore del viaggio commerciale, ha detto nei giorni scorsi che il transito delle navi non è stato un esperimento, ma il primo passo verso l’apertura del passaggio a nord-est per usi commerciali. Ha aggiunto che la sua compagnia ha già firmato altri contratti per trasportare la prossima estate merci dall’Asia alla Siberia seguendo la rotta appena aperta. «Siamo fieri e felici di essere la prima compagnia di navigazione occidentale ad aver attraversato il leggendario passaggio a nord-est portando a destinazione un carico delicato in un tratto di mare così pericoloso», ha aggiunto. Nils Stolberg ha anche calcolato che grazie a questa rotta ciascuna imbarcazione ha risparmiato 92.000 dollari di carburante.
Malgrado il riscaldamento globale, il passaggio a nord-est è seriamente minacciato dalla presenza di ghiacci galleggianti della lunghezza di un centinaio di miglia che dal polo Nord si muovono verso sud anche d’estate. Le isole al largo della costa settentrionale della Siberia ospitano dei ghiacciai dai quali, con sempre maggiore frequenza, si staccano iceberg che finiscono nelle acque che si vanno riscaldando. Nel 1983 una nave russa è stata colpita da un iceberg incontrato nel passaggio a nord-est nel cuore dell’estate. Tuttavia il ministero russo dei Trasporti, che dispone di una flotta di sei rompighiaccio a propulsione nucleare con il compito di aiutare navi commerciali russe e non russe, sostiene che nelle ultime estati la rotta raramente è stata del tutto non navigabile. «Le condizioni dei ghiacci erano molto più difficile 20 anni fa», ha dichiarato un portavoce.
Il viaggio delle due navi Beluga non è stato certamente una gita di piacere. Anche se non sono delle vere e proprie navi rompighiaccio, queste imbarcazioni sono state progettate per navigare in acque pieni di ghiacci e sono state scortate da almeno due navi rompighiaccio russe a propulsione nucleare durante tutto il viaggio. Le due imbarcazioni hanno incontrato la neve, la nebbia, i ghiacci galleggianti e pericolosissimi iceberg di dimensioni enormi ma di cui appariva sopra la superficie dell’acqua appena un metro in altezza. Il tratto piu’ difficile del viaggio è stato quello che corrispondeva con il punto piu’ a nord della rotta, lo stretto di Viziki sulla punta della Siberia. Metà della superficie marina era coperta di ghiaccio e i capitani di entrambe le imbarcazioni hanno dovuto far salire a bordo i piloti dei rompighiaccio russi per farsi aiutare ad uscire dal labirinto di ghiaccio. Vlarey Durov, capitano della Beluga Foresight, ha parlato della tensione dovuta alla costante attenzione ai ghiacci galleggianti e del tempo che si passava ad aspettare che il mare diventasse nuovamente navigabile. Ma ha ribadito: «È una scorciatoia economicamente ed ecologicamente vantaggiosa tra Europa ed Asia… In questi viaggi il vantaggio del percorso più breve supera il tempo che si perde ad aspettare di poter passare tra i ghiacci».
Trovare un passaggio a nord-est tra l’Atlantico e il Pacifico è stato l’obiettivo dei marinai e dei governi nell’Europa del sedicesimo secolo in quanto questa rotta avrebbe abbreviato il viaggio verso le isole ricche di spezie appena scoperte delle Indie Orientali di circa 2.000 miglia marine, equivalenti ad un anno di navigazione. Tuttavia la maggior parte delle spedizioni si conclusero in maniera disastrosa.
Il primo tentativo ad opera dell’esploratore britannico Richard Chancellor ebbe luogo nel 1553, ma fu interrotto bruscamente nell’inverno di quello stesso anno quando le sue navi rimasero intrappolate tra i ghiacci. Chancellor abbandonò la nave e raggiunse a piedi Mosca dove fu accolto alla corte di Ivan il Terribile. Il suo collega esploratore Sir Hugh Willoughby rimase a bordo con l’equipaggio e fu trovato morto per assideramento e congelato due anni dopo. Un altro tentativo organizzato nel 1597 dall’esploratore olandese William Barents finì con la sua nave stritolata dai ghiacci.
Barents e il suo equipaggio furono costretti a svernare in una baracca di legno costruita con mezzi di fortuna cibandosi di carne di orso.
Barents, da cui prende il nome il mare di Barents, non sopravvisse alla dura prova. Se il viaggio attualmente in corso si concluderà con successo, questi disastri marittimi diventeranno un ricordo del passato. Ma potrebbe essere appena agli inizi un altro tipo di disastro di tipo ambientale.
© The Independent
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
L’Unità, 22 settembre 2009
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“Invasioni di avvoltoi e Las Vegas in polvere: l’Armageddon 2055”, di Federica Fantozzi
Anno 2055, una torre d’acciaio spunta dall’Artico al largo delle coste norvegesi. Ospita l’Archivio globale, dove l’ultimo superstite della razza umana ha raccolto opere d’arte, libri, animali imbalsamati e memorabilia della sua specie. Intorno, fotogrammi dal nulla: il Taj Mahal invaso da avvoltoi, Las Vegas in polvere, l’Opera di Sidney in fiamme, l’America sommersa. È la fine dell’«Era dello stupido», e gli stupidi siamo noi. Inizia a effetto il docufiction della regista-produttrice americana Franny Armstrong, appena incoronata dall’Independent tra le 20 persone importanti per la sopravvivenza del pianeta. «The age of stupid» è stato visto ieri in anteprima a New York: sul greencarpet l’ex segretario Onu Kofi Annan. Stasera proiezione da record: contemporanea streaming in oltre 40 Paesi.
Obiettivo: diffusione globale a impatto zero.
4 anni di lavoro, 450mila sterline di budget, 223 finanziatori da squadre locali di hockey a centri di benessere femminili, il sostegno di Greenpeace e Wwf, hanno prodotto un agghiacciante manifesto dell’autolesionismo umano. Il messaggio: se non si inverte la tendenza gas serra in 5 anni l’umanità sarà estinta entro il 2055. La domanda: «Avremmo potuto salvarci,ma non lo abbiamo fatto. Perché ci siamo limitati a scrollare le spalle?». Due le risposte: pensavamo che non ne valesse la pena oppure, appunto, siamo stupidi.
Dalla sua postazione di retroguardia, l’Archivista Globale (Pete Postlethwaite, candidato all’oscar per I soliti sospetti) tocca il pc e ci apre finestre sul mondo. La battaglia di una famiglia per introdurre l’energia eolica in Cornovaglia stroncata dai vicini perché le turbine rovinano il panorama (memorabile l’intervista alla vecchietta tetragona: «Oh gosh, certo che sono preoccupata per l’effetto serra, chi di noi non lo è,ma queste pale rovinano i monumenti»). L’entusiasmo suicida di un rampante imprenditore indiano che vuole sconfiggere la povertà del suo popolo creando una compagna aerea low cost. Al grido di «anche i servi possono volare con 1 rupia» non si rende conto che peggio della rotta Delhi-Bergerac – dal punto di vista delle energie sostenibili – c’è solo appiccare il rogo all’Amazzonia. L’infanzia rubata a due piccoli iracheni, profughi in Giordania a causa di una guerra che lo stesso Alan Greenspan ha riconosciuto essere causata dalla caccia al petrolio.
Enella lista dei cattivi finisce la Shell, rea di trivellare il Delta del Niger senza migliorare la vita degli abitanti: la 23enne Layefa va a pesca per pagarsi gli studi in medicina, ma nelle reti finiscono solo pesciolini incrostati di catrame da lavare con il detersivo, e finirà per smerciare diesel al mercato nero. E ci sono momenti peggiori: villaggi rasi al suolo dalle milizie al soldo dei petrolieri, abitanti bruciati vivi, bambini nati morti perché le madri hanno bevuto l’acqua avvelenata dei pozzi.
Gli eroi? Pochi, marginali e inascoltati. L’ottantenne Fernand, la più vecchia guida alpina che ricorda ancora l’esistenza delle mezze stagioni, combatte i Tir in bicicletta e anticipa il biasimo: «Abbiamo saputo approfittare dell’ambiente ma non proteggerlo». Alvin, pensionato di New Orleans stile Clint Eastwood, che di fronte all’Uragano Katrina anziché fuggire mette in salvo centinaia di vicini con i loro animali domestici. Il finale lo scriveremo noi: riducendo la temperatura della Terra o finendo, con Chelsea Clinton presidente degli Usa, autodistrutti da una guerra nucleare.
L’Unità, 22 settembre 2009
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“Il pianeta senza l’Italia”, di Pietro Greco
In questi giorni all’Onu l’ambiente è tra i protagonisti assoluti. I capi di Stato e di governo iniziano a preparare la Conferenza sui Cambiamenti Climatici che si terrà a dicembre a Copenaghen. Una conferenza importante, perché si deciderà il «dopo Kyoto»: ovvero la politica ecologica, energetica e, per molti versi, economica dei prossimi decenni. E l’Italia non c’è. Certo, ci sarà una delegazione guidata dal ministro Prestigiacomo e domani arriverà il presidente del Consiglio.
Mail nostro Paese è assente dagli incontri, informali, che contano. Decideranno altri, anche per conto nostro. Realizzeranno altri – nuove tecnologie, nuove opportunità – senza di noi.
Il motivo è semplice. Il tema ambientale non è nella cultura del governo Berlusconi.
Contrastare i cambiamenti climatici «è un lusso che non possiamo per metterci», vanno ripetendo il leader e i suoi ministri a ogni occasione. E così il mondo intero si sta riposizionando, sia pure a fatica, e inizia a guardare alla «green economy» come a uno degli istrumenti principali per uscire dalla crisi e avviare un sviluppo più sostenibile. La questione climatica è, ormai, in cima all’agenda politica dei principali Paesi: negli Usa, in Giappone, in Cina, in Germania, in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna. Ovunque si mobilitano ingenti risorse umane e finanziarie. Ovunque,tranne che in Italia. Il nostro paese è “assente”..Senza un piano, senza iniziativa. Distratto da altre questioni.
L’Unità, 22 settembre 2009