PORDENONE – Che non si ripeta. Che non sia una tragedia inutile. Che l’assassinio di Sanaa spinga al dialogo. Tempo di tregua e promesse alla festa di fine del ramadan a Pordenone, dopo il delitto d’onore che ha insanguinato il Friuli. Sotto un sole da estate indiana uno spaccato dell’altro Nordest che lavora: millecinquecento persone, tremila piedi scalzi allineati sui tappeti, venticinque nazionalità, lingua veicolare l’italiano anziché l’arabo. Ma dietro a quel sole, l’ombra di un evento vissuto come un’onta. «In Marocco – sussurrano – quell’uomo sarebbe condannato a morte». La religione non c’entra, ripetono. E a controprova ricordano che quattro anni fa, in questi stessi luoghi, un padre italiano ha ucciso il proprio figlio perché omosessuale. Fabio Cauz si chiamava. E Carlo Alberto l’assassino.
Ma le ombre permangono. Da Roma Suad Sbai, pasionaria delle donne marocchine in Italia per il Polo delle libertà, denuncia che dopo il delitto la madre di Sanaa sarebbe stata “sequestrata” dal suo imam per essere indottrinata sull’atteggiamento (intransigente) da prendere. Ma qui la polizia sa che l’imam di Pordenone s’è limitato a un onesto lavoro di contatto fra la donna e gli inquirenti. E sa pure che in precedenza la madre avrebbe dato pochissima confidenza al capo della comunità. Chiusura a riccio. Ora trapela che la donna, una settimana prima del delitto, alla domanda «È tornata a casa tua figlia?», avrebbe risposto al religioso che sì, era tornata, e tutto si era sistemato. Tutto falso, ovviamente, per coprire il disonore. Una casa impenetrabile, un bunker. Nessuno doveva ficcarci il naso, nemmeno i musulmani.
Così il discorso di Mohammed Ouatiq a fine preghiera, tenuto a cielo aperto presso la nuova sede della comunità (appena inaugurata in un ex capannone), è tutto sul dialogo, quasi per forza maggiore. «Spalancare questo luogo al mondo è la premessa perché non ci siano incomprensioni e cose del genere non si ripetano. Non c’è giustificazione per quanto è accaduto». Annuiscono tutti, vecchi kosovari, giovani senegalesi, nordafricani, macedoni e persino una piccola rappresentanza di touareg in costume tradizionale ed elegante turbante blu. «Siamo parte del vissuto sociale italiano, e qualsiasi italiano vuole capire di noi ha il diritto di venire qui essendo il benvenuto». E arrivano gli applausi liberatori di una comunità smarrita, ansiosa di rassicurazione.
Ma il calore maggiore è riservato all’assessore alle politiche sociali di Pordenone, il democratico Giovanni Zanolin, che tiene un discorso ancora più lungo e accorato. «Quanto è accaduto non può essere inutile… So che tutti avete riflettuto. So che il vostro imam ha fatto molto in una situazione obiettivamente difficile». Si accalora, agita il suo foglio scritto a mano, suda sotto il sole alto. L’amministratore del comune sente che la situazione è delicatissima, può scappare di mano, e che nell’affare Ketawi è mancato l’elemento indispensabile del dialogo all’interno della famiglia e tra la famiglia e il mondo esterno.
«Questa è Italia, anche questa moschea è Italia, ogni pretesa di separatezza è insensata». E ancora «È inevitabile che i nostri figli si incontrino e si mescolino», e giù altri applausi che piovono come una liberazione dopo l’ansia tetra degli ultimi quattro giorni. «Max e Sanaa si sono amati e i sentimenti dei nostri figli corrono in fretta, sono più veloci della nostra capacità di costruire degli strumenti di mediazione». Come dire: dobbiamo fare in fretta, o c’è il rischio che forze negative prendano il sopravvento. «I nostri figli ci guardano, ci giudicano. Capiscono se facciamo la cosa giusta, e allora tornano da noi». Ancora ovazioni, braccia che si tendono per stringere la mano dell’italiano che se la prende tanto a cuore.
A fine cerimonia dal popolo dei fedeli arrivano altre conferme. È tutto vero. Ketawi era un violento iper-tradizionalista. Una sciagura per la comunità. Finché aveva abitato a Pordenone città, i servizi sociali si erano presi cura della sua famiglia, segno che già allora – fino a otto anni fa – la situazione non era facile, nonostante Sanaa non fosse ancora entrata nell’età difficile della ribellione. Poi, quando l’uomo si era trasferito nel piccolo comune di Azzano Decimo, il controllo e la mediazione si erano allentati, con l’epilogo che s’è visto. «Questa storia è la dimostrazione che serve una politica seria di integrazione, e lavorare solo sulla sicurezza non ha senso» chiosa Mohammed Abbas, pordenonese di Mogadiscio, mentre i maggiorenti del popolo di Allah smaltiscono la tensione attorno ai dolcetti di fine-digiuno.
La Repubblica, 21 settembre 2009