E’ stato detto, subito dopo l’attentato a Kabul che ha ucciso sei soldati italiani, che quando si vivono lutti così grandi non son decenti le polemiche e neppure le analisi politiche. Invece è proprio nell’ora del lutto e della pietà che urge il pensiero profondo, come è nelle tenebre che più si aspira alla luce. Neanche la polemica è fuor di posto, non fosse altro perché la guerra stessa è pólemos, controversia, e sulle controversie si dibatte, specie se sanguinose. Parlarne non è offendere i morti ma onorare una missione su cui certamente anch’essi si sono interrogati.
Molte guerre, a cominciare dal ‘14-18, avrebbero evitato il decadere in inutili stragi, se fossero state ridiscusse nel momento in cui cominciavano a divenire non solo sanguinarie – ogni guerra lo è – ma assurde e addirittura, come disse Benedetto XV nel 1917, inutili.
Iniziata nel 2001 come offensiva contro lo Stato talebano che ospitava Bin Laden, la guerra in Afghanistan è giunta a questa temperatura critica, dopo 8 anni. È una temperatura che non migliora estendendo la lotta al Pakistan o aumentando soldati, come nelle prime mosse di Obama. Migliora solo a condizione che la guerra non continui così: inerte, vuota di pensiero, indiscussa, indiscutibile. Non migliora se Obama continua a definirla «necessaria», dunque votata all’immutabilità perché da essa dipenderebbero le nostre vite. Se non ora che fa più morti e non dà frutti, quando metterla in discussione? Quando esaminare i suoi difetti maggiori, che sono la vista breve, la pigrizia mentale, l’occhio fisso su Kabul anziché su un’intera regione malata? Gli europei sanno per esperienza che le inutili stragi nascono dalla paura reciproca dei nazionalismi in un più vasto continente. Eppure, proprio l’Europa è singolarmente afasica sull’Afghanistan.
In Asia centrale accade qualcosa che gli europei conoscono. Il Pakistan ha un’enorme paura dell’India, il suo confine con l’Afghanistan ancora non è riconosciuto da Kabul, e l’alleanza afghano-indiana è per esso un incubo. Per questo Islamabad vuole non solo controllare Kabul, ma prolungare una guerra che tiene l’America in zona. L’Iran teme il ritorno dei talebani sunniti ma anche il perennizzarsi di basi Usa al proprio fianco Est. La Russia teme di legittimare con negoziati il terrorismo musulmano. Pensare la guerra vuol dire considerare la geografia e la storia di questi vari elementi. È quello che non è stato fatto. Bush è andato a Kabul come se sulle mappe fosse scritto: qui ci sono i leoni, hic sunt leones. E la guerra prosegue in un paese di cui non si vedono gli uomini: simile all’Africa senza storia descritta da Hegel.
Conoscere chi combattiamo significa meditare sugli avversari e su noi stessi: su come l’Occidente può sventare le minacce, sui mezzi – non obbligatoriamente militari – per promuovere una pace continentale che non si limiti all’area afghana. In particolare, significa capire chi sono gli insorti che si moltiplicano contro gli occupanti occidentali: cosa li muove, dopo l’iniziale benvenuto del 2001, e come oggi si dividono. Loro ci studiano, meticolosi. Noi ignoriamo abissalmente l’Afghanistan, persuasi di combattere un monolite nominato Al Qaeda. Sul terreno è da tempo che le cose non stanno così: gli insorti non sono tutti talebani, i talebani afghani e pakistani sono diversi, tutti hanno rapporti complessi o inesistenti con Al Qaeda. Non hanno agende politiche globali, ma nazionali se non tribali. Marc Sageman, ex agente Cia e studioso di terrorismo, è convinto: se la guerra è insensata, è perché Al Qaeda non è più lì e s’è indebolita: «Se Obama vuol tutelare l’America, non deve fare la guerra in Afghanistan. Gli insorti afghani e pakistani non viaggiano»: viaggia chi mette bombe in Occidente (intervista a Rémy Ourdan, Le Monde, 9 settembre 2009). Non è neppure detto che un governo con talebani ospiterebbe oggi Al Qaeda.
Esistono ormai studi minuziosi sull’insurrezione, che confermano queste analisi. Essi constatano invariabilmente un fatto: così come è stata condotta, la guerra fa solo danni perché il vero nemico non è più lì ma in Waziristan (Pakistan), e perché gli insorti non coincidono con Al Qaeda anche quando ricorrono a metodi terroristi. È un’insurrezione con molte radici, secondo Thomas Ruttig, consigliere dell’Onu e dell’Unione Europea, professore all’Università Humboldt di Berlino e all’Università di Kabul. Una serie di fattori spiega il suo dilatarsi negli anni: gli errori fatti all’inizio da Bush, che ha abbattuto Kabul lasciando un vuoto nelle aree rurali; l’omertosa complicità coi signori della guerra più corrotti e legati al traffico di droga; i ripetuti bombardamenti contro i civili; la corruzione infine del governo Karzai, divenuta più che palese nelle elezioni di agosto (Thomas Ruttig, The Other Side, Afghanistan Analysts Network, luglio 2009).
Irresponsabilmente ciechi, Washington e alleati hanno fatto propria la strategia di Karzai, e dei signori della guerra con cui Karzai si è alleato prima del voto: ogni insorto, ogni oppositore, è chiamato talebano terrorista. Ignorata è la sete di giustizia, tanto che nei territori controllati dai talebani le corti islamiche sono considerate più eque. Trascurate e minimizzate sono le sfaccettature dell’insurrezione, e la sua metamorfosi in guerra civile. Se si parla di Vietnam non è per il numero di morti (in Vietnam furono molti di più). È perché si ripete il fatale errore che consiste nell’entrare nelle guerre altrui. Perché resta del tutto inascoltata l’autocritica di McNamara, architetto della guerra vietnamita, che nel ’95 ammise in un’intervista: «Quella che combattemmo – e non ce ne rendemmo conto – era una guerra civile. Certo, esistevano influenze sovietiche e cinesi. Senza dubbio, i comunisti volevano controllare il Sud Vietnam. Ma fondamentalmente era una guerra civile. Non puoi vincere una guerra civile con truppe esterne, soprattutto quando la struttura politica del paese è dissolta». Il «problema non fu la stampa. Fu che l’America era nel posto sbagliato con la tattica sbagliata». Il male non fu discutere troppo la guerra, ma troppo poco.
La metamorfosi dell’insurrezione ha dato forza ai talebani, rilegittimandoli e diversificandoli. Oggi ci sono i radicali ma anche i cosiddetti talebani anti-corruzione, ostili a Karzai e ai suoi legami col crimine. Ci sono i talebani per necessità (forced Talebans), entrati in insurrezione quando i bombardamenti occidentali hanno colpito assiduamente i civili. Il nucleo centrale talebano è a sua volta eclettico, contraddittorio. I talebani moderati non sono inventati: l’ultima volta che si manifestarono (trenta dirigenti, nel 2005) proposero un piano in sette punti che nessun occidentale esaminò seriamente.
Il fronte anti-Karzai è per forza divenuto un possente fronte anti-occidentale, viste le cecità e acquiescenze Usa e Nato. Resta, nei più, il timore di un ritorno dei talebani e dell’abbandono di una costituzione che ha dato garanzie alle minoranze e alle donne. Ma i vincoli di un fronte variegato hanno attenuato l’integralismo religioso, pur non mutando le opinioni talebane sulla democrazia parlamentare. Non è vero dunque che in Afghanistan combattiamo in primis contro il fanatismo: l’ideologia religiosa non è attraente per la maggioranza degli insorti, specie fra non pashtun, sciiti, donne. Risultato: nel 2003 i talebani controllavano 30 distretti su 364. Alla fine del 2008 ne controllavano 164. Gli attacchi sono aumentati del 60 per cento tra ottobre 2008 e aprile 2009, e nuovi fronti si sono aperti a Nord-Ovest, in zone difficili per i talebani.
In Europa e nei rapporti con la Russia, Obama sta mostrando intelligenza, senso della storia. Ha studiato le paure della Russia, dell’Iran, e ha studiato anche l’Unione Europea, mettendo fine alle divisioni letali che Bush aveva attizzato fra paesi fondatori e Stati dell’Est riluttanti a condivisioni esplicite di sovranità. Ha deciso di rinunciare allo scudo antimissile per promuovere la pace nel continente, non per congelare dissidi, paure, nazionalismi. Quest’intelligente prudenza, ancora deve mostrarla in Asia centrale. Non può che cominciarla aprendo, sull’Afghanistan, la vera discussione che in Vietnam mancò.
da La Stampa