Tante storie, una sola anima». Dice così il manifesto, appeso alla porta, che ti accoglie con gli sguardi di Dylan e Pasolini, di Moro e Berlinguer. Romanina, periferia di Roma: venti chilometri dal centro, solo la metà dai Castelli Romani. Siamo all’estremo: nuovo quartiere cresciuto a ridosso di uno dei più antichi centri commerciali di cui è diventato un appendice. Le case sono strette tra il Grande Raccordo Anulare, l’Ikea e Decathlon, il regno dello sport. Una zona di piccoli proprietari, impiegati, artigiani. Ceto medio, insomma. Al centro di questo dedalo di supermercati e grandi strade c’è la sezione (anzi, il circolo) del Pd. Un piccolo locale sistemato tra un’agenzia di viaggi e un parrucchiere con un nome altisonante: «Fashion makers». Fabbricanti di moda. Dentro il circolo «Anagnina», circa 70 persone discutono per ore girando attorno a una domanda: riusciremo a fabbricare il Pd? È il congresso, uno dei tanti in giro per l’Italia. Questa è una sezione abbastanza forte: 217 iscritti, una trentina di giovanissimi e una segretaria tosta. Si chiama Arianna, ha 28 anni, lavora alla Regione. È una che se le domandi perché sta nel Pd risponde: «Perché sono di sinistra e voglio cambiare le cose». Lei guida («con qualche fatica») una pattuglia di compagni che nel tempo si sono divisi tra le varie sottocorrenti delle correnti di due ex partiti che si sono messi insieme.
Siamo venuti qui con due obiettivi: raccontare quel che dice il popolo del Pd in un posto lontano dai palazzi che contano e farlo cancellando per un momento ogni appartenenza di mozione per sentire quel che vibra nel corpo dei democratici. E dopo un lungo dibattito emerge proprio questo: tutti cercano un partito che intanto ci sia, parli chiaro, butti via ogni tentazione correntizia, rappresenti il lavoro, i diritti e la laicità. E soprattutto: che dopo, dopo questo lungo e tortuoso congresso, ritrovi la sua unità. Bella impresa. Arianna ci crede e lo dice quasi con brutalità: «Viviamo in una tragica condizione di abbandono, spesso non capisco quali sono le posizioni del partito. E poi basta con queste correnti, qui si arriva quasi agli avvertimenti mafiosi. Qualcuno mi ha detto: se ti metti sotto la mia protezione…». La sua analisi è aspra. Ma rende bene come si vive in periferia dove i problemi ti travolgono e ti chiedono di agire. Enrico, che è pensionato, invita a smetterla di «guardarsi nell’ombelico». «La mattina mentre mi faccio la barba ascolto la rassegna stampa e vorrei dire la mia. Ma a chi la dico? Con chi parlo?». Eleonora ha 24 anni, legge il suo intervento: «Il futuro non appartiene a chi si accontenta…», dice timidamente. Maurizio, insegnante di danza, si scaglia contro «il vizio della cordatina». E Simona, anche lei ragazza, racconta di aver sentito «tante storie vecchie dentro il partito che non ho capito». E se si continua a tenere la testa rivolta all’indietro non si cammina. Sono giovani. E i giovani, come dice una bella canzone di Guccini, hanno «tante balle in testa». Ma sono quelle balle lì, sogni che sembrano impossibili, a tenere viva la politica. La divisione tra vecchi e giovani qui dentro si sente. Si coglie anche qualche asprezza. «Qualcuno ci ha invitati a uccidere i padri – spiega Arianna – ma poi si è proposto come nuovo padre». La ventata di nuovismo che ha attraversato il Pd dei primi passi è lontana ma ha lasciato residui. «L’età non c’entra, ognuno di noi può dare del suo», dice Annarita, inpiegata di 52 anni. «Non si può dire solo giovani, il problema è la qualità», aggiunge Salvatore, direttore di cantiere. Per carità, nessun regolamento di conti generazionale: i giovani ci sono e senza di loro la sezione forse non sarebbe quel che è: aperta tutti i giorni, a volte anche la mattina. Forse, alla fine, la migliore ricetta è tenere insieme. «Da niente non nasce niente, la storia di ognuno non si cancella», spiega il pensionato Aurelio.
Ma a che serve oggi il Pd? Certo, battere Berlusconi. Certo, mettere la parola fine alla «cultura dell’odio» che è tornata a Roma dopo la vittoria di Alemanno. E poi? «E poi, compagni: il lavoro. È un problema terribile, ce ne siamo accorti?», dice Enrico. C’è Guido che ricorda i «tanti morti dei cantieri» e i «precari che stanno sospesi». I più giovani accarezzano i temi dei diritti e della laicità. «Voglio uno stato profondamente laico», dice Eleonora. «E sul merito dobbiamo puntare, non si può andar avanti solo per conoscenze». Annarita la vede così: «La persona al centro, altrimenti non c’è cambiamento possibile». Lino, che fa il capotreno, pensa invece alla ricerca. Dice: «Bisogna interrompere la fuga di cervelli…». Non parlano politichese. Sentono sulla loro pelle il dramma di una crisi che toglie il fiato. E al Pd chiedono di uscire dal letargo e immergersi nelle periferie d’Italia. «E poi ribellarsi». Divisi non si vince, pensano tutti. Guardano l’effetto che anche su di loro ha prodotto il correntismo e capiscono che così non si fa molta strada. Dice Salvatore: «Discutiamo, va bene, contiamoci. Ma dal 25 ottobre si cambia, dobbiamo ripartire». Anche Lino crede che le caste siano un danno: «Voglio una voce sola, voglio unità». E Arianna dice che «se non c’è chiarezza non c’è speranza». Insomma, il popolo del Pd è stanco di questa lenta e faticosa opera di costruzione. Forse anche un po’ depresso. Al punto che Maurizio, come in una scena di un film di Ettore Scola, sbotta e dice: «Compagni, ma che è sta depressione? Un po’ di allegria…». Il fatto è che qui, da questa trincea periferica, si vede meglio che fuori c’è la vita con i suoi problemi e le sue speranze. «Dobbiamo starci dentro ai problemi, invece di metterci le magliette», dicono. Loro sono pronti. I più giovani ci mettono anche qualche sorriso e tanta passione. Fuori, la vita scorre attorno ai centri commerciali, cattedrali del consumismo moderno. Ma un partito, sembrano pensare un po’ tutti, non è un supermercato con tanti scaffali e tanti prodotti. Un partito deve avere un’anima. Appunto: tante storie ma una sola anima. Ci riuscirà?
da www.unita.it