La crisi non è finita, avrà serie conseguenze sul mercato del lavoro nei prossimi mesi». L´allarme di Napolitano al seminario Ambrosetti di Cernobbio sottolinea una specificità italiana e al tempo stesso coglie un problema mondiale.
La «jobless recovery», ripresa che non crea occupazione, è al centro dell´attenzione anche in America. Ma l´Italia, con due milioni di disoccupati, non è riuscita finora ad agganciare neppure la mini-crescita dei nostri due principali partner economici, Germania e Francia. L´autunno sarà durissimo per chi cerca un impiego, le tensioni sociali s´inaspriranno. Il contesto mondiale non ci aiuta. Gordon Brown nel presiedere il G-20 parla di «snodo critico per l´economia globale». E avverte: guai a pensare che il peggio sia passato. Il ministro del Tesoro Usa, Tim Geithner, conferma: «Sfide serie all´orizzonte, sarebbe un errore premere troppo presto sul freno». Il Fondo monetario internazionale corregge in peggio le stime sulla recessione a fine 2009: meno 1,4% la crescita globale, un dato perfino troppo roseo perché è una media con i paesi che continuano a svilupparsi come Cina e India. I mercati finanziari soffrono di un intrigante strabismo. Le Borse hanno cominciato a festeggiare a marzo. Un diverso messaggio viene dai mercati obbligazionari – che movimentano volumi di capitali assai superiori – dove la costante discesa dei tassi tradisce sfiducia: quando gli investitori intravedono la crescita, i rendimenti normalmente aumentano.
Capire quel che sta accadendo dentro la più grande economia del mondo, l´America, è essenziale per noi. Perché da decenni i periodi di crescita hanno avuto l´innesco iniziale negli Stati Uniti, e l´economia globale non ha ancora trovato un motore di ricambio. In America l´euforia di Wall Street si nutre di apparenze. La Borsa gode perché ad agosto sono stati licenziati «solo» 216.000 lavoratori. Il dato piace perché all´inizio dell´anno si distruggevano posti al ritmo di 700.000 al mese. Ma si trascura il fatto che quei licenziati dei mesi precedenti non sono stati più assunti, e il totale dei disoccupati continua a crescere inesorabilmente. Dall´inizio della crisi mancano all´appello 9,5 milioni di posti. Almeno 5 milioni sono i disoccupati di lunga durata, quelli che rimangono senza lavoro per più di sei mesi: un fenomeno tristemente noto in Europa ma dal quale gli Stati Uniti in passato erano meno colpiti, per la flessibilità del loro mercato. Ogni volta che si apre un´opportunità di impiego, per un posto si presentano in media sei candidati. Il tasso di disoccupazione americano che era del 4,6% appena due anni fa, toccherà il 10% entro quest´autunno. Se si aggiungono i sotto-occupati – quelli che devono accontentarsi di posti precari e part-time in mancanza di meglio – la massa sale al 16,8%. È dalla fine della seconda guerra mondiale che non si verificava un disastro sociale di queste proporzioni. E questo avviene malgrado una generosa distribuzione di spesa pubblica – i 787 miliardi di dollari dello «stimolo Obama» – senza la quale l´impoverimento sarebbe stato ancora più grave.
Commentando i dati di agosto sulla disoccupazione Dean Baker, direttore del Center for Economic and Policy Research di Washington li definisce «un rapporto orribile». Infatti finché non s´inverte davvero il ciclo dei licenziamenti, da che parte può ripartire l´economia? La crisi del lavoro riduce il potere d´acquisto, in un paese dove i consumi generano il 70% della creazione di ricchezza. Gli scenari più realistici ormai situano una vera ripresa americana attorno al 2014. Prima di allora ci attende solo la «jobless recovery», crescita asfittica e mercato del lavoro immobile. 2014? Cinque anni sono un periodo interminabile. Soprattutto per chi ha perso il lavoro, o ha dovuto ripiegare su impieghi indesiderati e meno pagati, infine per i giovani che concludono gli studi e si presentano sul mercato. È il problema centrato ieri da Napolitano. La «jobless recovery» comporta un´immensa distruzione di capitale umano. Per i ventenni un´attesa così prolungata crea un vuoto incolmabile di esperienza nei primi anni di contatto con la realtà, quelli che dovrebbero essere i più formativi all´uscita dalla scuola e dall´università. Genera un insicurezza che si traduce in perdita di autostima. Per i cinquantenni un mercato del lavoro congelato fa svanire rapidamente ogni residua speranza di agganciare un´attività. S´infoltiscono le schiere dei prepensionati, o dei «precari maturi» che si arrangiano in attesa della pensione. Anche questo è un fenomeno distruttivo: peggiora gli equilibri del sistema previdenziale; depaupera il mondo delle aziende di una generazione che in passato era portatrice di esperienza e contribuiva alla formazione dei giovani neoassunti. La disoccupazione è tutte queste cose e altro ancora: lo stress psicologico si diffonde in tanti rivoli, crea milioni di depressi, conflitti familiari, malattie. Perciò di fronte alla disoccupazione che continua a crescere implacabilmente, è assurdo celebrare il fatto che «la sua velocità diminuisce». È per questo che i dati sul mercato del lavoro dovrebbero diventare i più seguiti, i più analizzati, ben più importanti di quell´astrazione che è il Prodotto interno lordo.
L´emergenza lavoro è la ragione principale per cui è prematuro il dibattito fra governi sulla «exit strategy» in politica economica. Cioè l´idea che bisogna già cominciare a tirare i remi in barca, ridimensionando gli sforzi di spesa pubblica fatti nei mesi scorsi. «Sarebbe un grave errore, non è il momento di lasciarsi andare a eccessi di fiducia», dice giustamente Gordon Brown. La mobilitazione di risorse pubbliche è ancora necessaria, per scongiurare lo spettro di una ricaduta: la famigerata «doppia v», la forma geometrica che avrebbe l´andamento della crisi, se un effimero sussulto di vitalità viene seguito da un´altra fase di recessione. Un dispiegamento intelligente dell´azione dello Stato in questi frangenti può fare la differenza. La prova è nei fatti: la Francia ha speso il doppio di risorse pubbliche di noi nella manovra anti-crisi e ha ritrovato un segno più nella sua crescita, l´Italia continua a perdere terreno.
La Repubblica 06.09.09
Federico Rampini