Caro direttore, sin da quando ha riassunto responsabilità di governo, nel 2008, il ministro Giulio Tremonti ha intrapreso un processo agli economisti. Accusatore e giudice al tempo stesso, ha emesso successivi verdetti di condanna, la pena consistendo nell’obbligo al silenzio per almeno due anni, in specie su questioni di politica economica. La motivazione pare essere la seguente: non avere gli economisti previsto la crisi e aver anzi accettato o addirittura esaltato le degenerazioni che la provocarono. Per un’opportuna opera di rieducazione viene suggerita la lettura dei libri del ministro.
Nessuno di noi è disposto a stare zitto. Un compito importante della nostra professione, in Italia e altrove, consiste nel sottoporre a valutazione ragionata la politica economica dell’esecutivo. Lo abbiamo fatto con i governi passati, continueremo a farlo e ci pare preoccupante che oggi in Italia sia tanto difficile avere un confronto pubblico pacato sulla politica economica in tempi di crisi: sulla Legge Finanziaria 2010, sull’efficacia dei provvedimenti che il governo ha finora adottato e sulla loro sorte.
Non abbiamo difficoltà a riconoscere che questa crisi pone una sfida alla nostra professione (di cui alcuni di noi hanno anche scritto): non certo per non averne previsto il quando e il come, quanto per non aver pienamente percepito le cause e le conseguenze di un’anomala crescita del credito e dell’esposizione al rischio e per avere trascurato i problemi di stabilità finanziaria. Il disagio degli economisti, comunque, non può essere certo maggiore di quello di governanti, banchieri centrali e vigilanti, soprattutto di oltre Atlantico, i quali ancor meno seppero prevedere e prevenire. Semmai, quando si cerchino eccezioni alla disattenzione generale, le si trovano proprio fra gli economisti, tra cui quelli della Banca dei Regolamenti Internazionali e non pochi accademici.
Ma tanto non può certo bastare al ministro, il quale afferma che egli sì aveva previsto tutto, e da tempo. Notiamo che l’affermazione reiterata negli anni che presto o tardi vi sarà una crisi non rappresenta una previsione, ma una scommessa a esito sicuro. Nel suo ultimo libro Tremonti discute delle miserie dell’Europa, della sua paralisi politica, dei costi della globalizzazione. La breve analisi della crisi finanziaria, già in atto da nove mesi, pur se efficace e corretta, non si distanzia da altre che in quei mesi venivano pubblicate. Nella parte propositiva si tratta di questioni generali, mai tuttavia toccando i temi della riforma del sistema finanziario.
Ma soprattutto ci chiediamo se la capacità di previsione di cui egli è fiero abbia ispirato la sua azione di governo. Una ricerca in questa direzione dà risultati deludenti. Non troviamo traccia di gravi preoccupazioni sulla stabilità finanziaria globale nei documenti ufficiali firmati dal ministro; né rinveniamo espressioni di preoccupazione manifestate nei consessi internazionali a cui egli partecipò prima della crisi. Di più: alcuni provvedimenti assunti nell’estate del 2008 (quando, anche prima di Lehman, gli Stati Uniti e, sola in Europa, l’Italia erano già in recessione) paiono poco comprensibili in una realtà in cui l’occupazione si riduceva, aumentava la cassa integrazione e i bilanci delle banche esibivano crescenti sofferenze. Ma questo dibattito riguarda ormai il passato, né conviene coninuarlo. Di altro vorremmo discutere con lui, se, restituendoci il diritto di parola, egli accettasse di farlo: delle vicende dell’economia italiana e dei suoi mali oscuri; delle ragioni che lo inducono a ritenere che noi usciremo meglio degli altri dalla crisi, pur essendoci entrati assai prima e in condizioni peggiori. Vorremmo conoscere la sua opinione su una stagnazione, indipendente dal ciclo politico, che ormai dura da quindici anni, rammentando che negli anni in cui il ministro ha avuto la responsabilità della politica economica (2001-2005, quando il suo primo documento di programmazione prometteva «un nuovo miracolo economico», e 2008) la crescita italiana ha esibito un divario negativo di oltre 5 punti rispetto alla crescita europea. In definitiva, vorremmo comprendere come egli si proponga di trasformare in realtà le sue speranze sul futuro del Paese.
Giorgio Basevi, Pierpaolo Benigno Franco Bruni, Tito Boeri Carlo Carraro, Carlo Favero Francesco Giavazzi, Luigi Guiso Tullio Jappelli, Marco Onado Marco Pagano, Fausto Panunzi Michele Polo, Lucrezia Reichlin Pietro Reichlin, Luigi Spaventa
Il Corriere della Sera, 3 settembre 2009