Da almeno vent’anni, la ripresa della vita economica e politica dopo la pausa estiva è stata dominata dalla discussione collegata alla legge Finanziaria. Dal silenzio di fine estate su questi temi, sembra quasi che la Finanziaria del 2010 non si debba proprio fare. Certamente non rimpiangiamo il tradizionale martellamento di fine estate sulla dimensione della manovra, sui presunti tagli alla spesa pubblica, sugli imponenti programmi di sviluppo e sui minacciati inasprimenti fiscali. In effetti la qualità della discussione sulla Finanziaria, il principale strumento di politica economica del Paese, è sempre stato molto scadente. Inoltre, dopo mesi di martellamento estivo, la Finanziaria ha quasi sempre finito col determinare inasprimenti fiscali e aumenti di spesa pubblica. Nel 2009, la spesa pubblica arriverà quasi al 53% del Prodotto interno lordo e la pressione fiscale raggiungerà la cifra record del 43,4%, sempre in rapporto al Pil.
La mancanza di dibattito sulla legge Finanziaria e sulla politica economica non è solo colpa dell’estate dei veleni e dell’attenzione dei media a temi che poco hanno a che fare con la politica economica. Con la presentazione a luglio del Documento di programmazione economica e finanziaria, il governo ha ufficialmente dichiarato che non intende portare alcuna correzione all’andamento tendenziale di finanza pubblica del 2010.
Questo significa che nel 2010 il disavanzo pubblico dovrebbe essere intorno al 5 per cento del Pil, in lieve miglioramento rispetto al 5,3 per cento previsto per il 2009. Il miglioramento non sarà dovuto a nuove iniziative governative collegate alla Finanziaria, ma alla lieve ripresa prevista per il 2010 e al conseguente recupero delle entrate fiscali.
Nel mezzo della peggiore crisi economica del dopoguerra, il governo ha deciso di lasciare operare il bilancio per inerzia, senza contrastare l’aumento della spesa (soprattutto quella pensionistica) e il crollo delle entrate fiscali, in larga parte dovuto al rallentamento della produzione. Per un Paese senza problemi strutturali e con una traiettoria di crescita ben definita, durante una recessione lasciare operare il bilancio pubblico attraverso i suoi stabilizzatori automatici (le variazioni di spesa e di entrate legate al ciclo economico) è una strategia che può essere condivisibile e viene anche suggerita dall’analisi economica.
Il vero problema è però che l’Italia non ha una traiettoria di crescita ben definita ed è piena di problemi strutturali. Mentre l’economia europea cresceva sopra il 2,5 per cento, come avvenuto in media tra il 2006 e il 2007, l’Italia cresceva solo dell’1,8 per cento. Durante la recessione del 2009, l’Europa registrerà un calo del Pil intorno al 2,5 per cento, mentre l’Italia arriverà a perdere più del 5 per cento del Pil. In altre parole, facciamo peggio della media europea sia quando le cose vanno bene sia quando vanno male. Il motivo è appunto legato ai nostri problemi strutturali.
Avendo deciso di lasciare operare il bilancio per inerzia, il governo in autunno avrebbe l’occasione di mettere mano ad alcune delle grandi riforme strutturali. Queste riforme non richiedono necessariamente risorse economiche, ma grande volontà politica. La riforma degli ammortizzatori sociali dovrebbe essere la prima. Il ministro Tremonti sostiene che in mezzo alla crisi l’urgenza non è quella di una riforma sociale, bensì quella di non lasciare indietro nessuno e trovare le risorse per rifinanziare la cassa integrazione. In questo modo non si rischia però di lasciare indietro i milioni di lavoratori precari che non hanno accesso alla cassa integrazione? Se davvero non si vuole lasciare indietro nessuno, non sarebbe necessario riordinare gli ammortizzatori e introdurre un sussidio unico indipendentemente dal tipo di contratto e dalla dimensione di impresa?
Sempre per non lasciare indietro alcun lavoratore, il governo potrebbe poi introdurre un salario minimo nazionale. Sarebbe un modo di sostenere i lavoratori più poveri, e al tempo stesso facilitare il decentramento della contrattazione, un tema molto discusso durante l’estate e che ha anche ricevuto importanti aperture da tutti i sindacati. La compartecipazione dei lavoratori agli utili, un tema rilanciato in questi giorni, è senz’altro un tema affascinante, ma una priorità strutturale sarebbe facilitare la contrattazione aziendale e il legame tra salari e produttività. La crisi ci ha infine ricordato che il tema delle pensioni non può essere accantonato. Nel mese di agosto la commissione tecnica del ministero ha ricordato che soltanto con una crescita del Pil del 2 per cento la spesa pensionistica potrà essere controllata. Altrimenti sarà destinata a crescere in modo incontrollato.
I nodi strutturali da affrontare non mancano, come purtroppo non sembrano mancare periodi in cui cresciamo sotto la media europea. I due problemi – la bassa crescita e i nodi strutturali – sono intrinsecamente legati e affrontando il primo si risolverà anche il secondo. La politica economica autunnale non può dimenticarsi del legame tra i due fenomeni.
pietro.garibaldi@unito.it
da La Stampa