Il dibattito aperto sull’Unità sul «silenzio delle donne» è una bellissima iniziativa, che ho molto apprezzato. Mi ha però lasciata interdetta una frase del pur interessante intervento di Lidia Ravera. «Ve la ricordate la rivolta da camera delle nostre madri? »- ha scritto Ravera – «Erano donne che avevano vissuto la loro giovinezza a cavallo della seconda guerra mondiale e che, nell’Italia in rapido sviluppo degli anni sessanta, impigliate nel codice antico dell’esistenza vicaria, stavano maturando un disagio crescente per i ristretti ambiti delle loro vite. Che cosa facevano mentre le loro figlie scendevano in piazza bruciando le icone della femminilità tradizionale? Si lamentavano. Opponevano un fiero cattivo umore a un destino che vivevano come immutabile.
Era il canto della loro sconfitta, il lamento». Mi sono chiesta: come è possibile che una scrittrice, colta, brillante e intelligente come Lidia Ravera non sappia che quelle madri, le donne della generazione della resistenza, negli anni ’50 e ’60 erano rimaste in campo, avevano condotto straordinarie lotte per ottenere il diritto al lavoro e allo studio, la parità di salario, la tutela delle lavoratrici madri, il divieto di licenziamento per matrimonio, i servizi sociali? Nel 1963 – proprio negli anni sessanta di cui parla Lidia Ravera – Nilde Jotti, allora responsabile femminile del Pci, sottolineava con soddisfazione che, «grazie alle lotte e alla combattività delle lavoratrici, le disparità salariali si erano fortemente accorciate«(dal 19% di scarto al 7,2% nell’industria e nel commercio e dal 30% alla parità contrattuale nell’agricoltura.) (…).
Altro che lamento! Quelle donne erano fiere delle lotte condotte, delle conquiste realizzate. Le faceva soffrire piuttosto il fatto che il loro lavoro fosse cancellato, rimosso; che quelle loro figlie, impegnate nel movimento femminista, le contestassero, avversassero l’Udi e rifiutassero la linea di emancipazione (…). La vita delle donne italiane nel corso degli anni è profondamente cambiata: il diritto al lavoro, alla parità di retribuzione, l’accesso alle carriere, compresa la magistratura, la polizia, l’esercito, un nuovo diritto di famiglia basato sulla eguaglianza, il divorzio, l’abolizione del delitto d’onore, la tutela dei figli nati fuori del matrimonio, l’autodeterminazione nella maternità e nell’aborto sembrano oggi norme ovvie e pacifiche, ma sono costate lunghe lotte. (…). Attualmente il contrattacco si è dispiegato in modo feroce: precarietà del lavoro, riduzione dei servizi, impossibilità di usufruire dei diritti (maternità, previdenza, lavoro) sanciti nelle leggi; una crescente violenza maschile contro le donne. Soprattutto, come denuncia Ravera, sta passando un modello culturale, un’immagine di donna, «tette grandi, cervello piccolo», che per affermarsi comunque – fare la velina o essere eletta in parlamento sembrano obiettivi equivalenti! – deve vendere il proprio corpo. Uscire dal silenzio, tornare a dire «noi» anziché «io», ricostruire una rete tra i tanti gruppi e movimenti femminili che tuttora esistono, riprendersi la piazza, organizzare la lotta è oggi urgente e necessario. Ma per far questo sarebbe utile che la stampa, quella poca che, come l’Unità, non è asservita, desse visibilità alle donne che non tacciono; che, ad esempio, facesse sapere ai suoi lettori e alle sue lettrici che l’Udi esiste ancora. (…)
L’Unità, 1 settembre 2009