“L’Aquila, per la ricostruzione in campo aziende a rischio mafia”, di Attilio Bolzoni e Giuseppe Caporale
C’è chi ce l’ha nonostante certe pericolose amicizie. C’è chi non ce l’ha e vorrebbe tanto averlo. C’è chi l’ha perso. C’è chi l’ha conquistato in extremis. C’è chi ancora lo aspetta con ansia. Tutti dicono che oramai è solo un pezzo di carta straccia ma tutti ne hanno maledettamente bisogno. Nell’Abruzzo della ricostruzione va in scena il balletto dei certificati antimafia. È l’altra faccia della rinascita dell’Aquila, quella più nascosta. È la corsa per conquistare un titolo ufficiale di antimafiosità, l’attestato di «buona condotta» che fa muovere ruspe e movimentare terra, scaricare calcestruzzo, montare infissi, piantare pali, costruire case e casette. Senza di quello – il certificato – non si fanno affari e non si fanno soldi fra le macerie del terremoto. Le chiamano «verifiche»: sono gli accertamenti antimafia. «Fatti o da fare sono più di 300», confida un investigatore. Ditte siciliane e marsicane, ditte calabresi e pugliesi e napoletane. E poi ditte con sede sociale al Nord intestate a figli o a nipoti di personaggi con radici nel mondo criminale, mafiosi o camorristi …