Quando la Rai inaugurò il suo regolare servizio di trasmissioni, Ugo Gregoretti vi lavorava da un mese. Era già talmente scapestrato e ingestibile, che i suoi superiori definivano «gregorettate» le
alzate d’ingegno di chiunque volesse aggirare i limiti imposti dall’asfissiante censura democristiana.
Eppure in quei limiti lei ha individuato, come Queneau con i «contraintes» che si autoimponeva, uno stimolo creativo.
«C’era una censura capillare, che non esplodeva soltanto in casi eclatanti come la vicenda di Dario Fo a Canzonissima, ma che era pane quotidiano. I responsabili dei programmi erano più realisti del re, più servi di quanto fosse necessario, ma in ogni caso privi dell’indecenza, della volgarità e dell’arroganza dei loro omologhi attuali. Noi però eravamo una strana generazione di giovani raccomandati, come Eco, Vattimo e Furio Colombo, che entrarono grazie a un concorso truccato con cui Guala travasò nell’azienda i migliori cervelli della gioventù cattolica, e aguzzavamo l’ingegno per fare breccia in questa maglia fittissima di prigionia censoria. Qualche volta ci riuscivamo, suscitando pandemoni».
In quel clima lei si impose come una sorta di sociologo strutturalista di taglio popolare. Che cosa si proponeva?
«Cercavo di catturare l’attenzione su fatti complessi nel tentativo di renderli comprensibili, utilizzando molto la mia vocazione naturale all’ironia e avendo sempre coscienza del fatto che tra i telespettatori, nel loro interclassismo culturale, c’era una forte componente di incolti, dai quali mi sforzavo di farmi capire. Io sostenevo che anche la mia amabile portinaia, che non credo fosse andata oltre la quinta elementare, avrebbe potuto apprezzare i miei programmi strutturalisti sui romanzi popolari, purchè fosse stata attenta».
Oggi non si cerca di stimolare la portinaia, ma di assecondare la cosiddetta casalinga di Voghera.
«La televisione ha sempre cercato di assecondare, ma c’è modo e modo. L’assecondare di una volta aveva una sua dignità, grazie al sacrosanto monopolio, che Dio lo abbia in gloria: non c’era bisogno di competere coi ceffi che sono venuti dopo».
Ma liberalizzare le frequenze non significa valorizzare il pluralismo?
«È stato sbagliato crederlo. Io stesso pensavo che con la competizione e il confronto ci sarebbe stata più libertà, più ricerca di forme nuove di espressione. Invece si è scatenata una rincorsa verso l’abisso, verso il baratro, a chi faceva le cose più schifose pur di catturare il pubblico. Mi risulta che le leggi che impongono alla Rai alte finalità educative siano ancora in vigore. Ma non vengono rispettate perchè i veri dominatori, i veri tiranni della televisione sono gli inserzionisti pubblicitari. E c’è molta meno libertà espressiva rispetto a vent’anni fa, perchè il Basso Impuro, che possiede tre tv di suo ed altre tre ne controlla in quanto primo ministro, non è certo un fanatico del pluralismo e della correttezza dell’informazione. Mi viene in mente quel Minzoletti, Minzolini…».
Mi fa un esempio di cattiva televisione?
«Giusto l’altro giorno ho visto un programma che mi è sembrato la metafora perfetta dello stato attuale della Rai. Era la consegna di un premio giornalistico ad Amalfi, con annessi balletti scosciati e un pubblico di notabili con le facce da stronzi e le mogli mignottesche, sul genere velina attempata. Un prestigiosissimo premio mai sentito nominare consegnato a giornalisti sconosciuti. Ma qualcuno avrà avuto il potere politico di imporre questa cagata, immagine perfetta della squallida e cafona Italia di oggi. Basti pensare ai giovani industriali che hanno applaudito il Basso Impuro, sganasciandosi alle sue allusioni alle veline, alle puttane, agli amori, alle corna. E questa sarebbe la nuova classe dirigente, questa banda di pizzicagnoli…».
Ma della tv di oggi non le piace proprio niente?
«Contemplo volentieri gli schermi oscurati di Rai2 e Rete4. A parte gli scherzi, guardo i talk-show di Floris e Santoro e perfino quello assai discutibile di Vespa, che se non altro diluisce un minimo di pepe giornalistico nel brodo aziendale, nonostante l’affanno quotidiano a sopire e reprimere, come diceva il conte zio dei Promessi Sposi».
Ritornerebbe a fare televisione?
«Ovviamente nessuno si è mai sognato di cercarmi in questi ultimi anni e io mi sono guardato bene dal cercare loro. Si è stabilita una perfetta, geometrica, reciproca ignoranza. Io potrei anche avere delle idee, ma c’è un ermetico rigetto da parte dell’azienda nei miei confronti. Eppure penso che il mio modo di fare tv possa ancora funzionare, naturalmente con una sensibilità che individui anche le realtà nuove, senza ostinarsi a riproporre valori o fenomeni superati. E la mia naturale propensione verso i giovani mi sarebbe di grande aiuto».
Ma crede ancora nella tv di qualità?
«Credo che una cosa fatta bene faccia bene».
L’Unità, 31 agosto 2009