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“I muri che nutrono la nostra paura”, di Michela Marzano

Il clima d´intolleranza che serpeggia oggi in Italia è sintomo di una società che ha paura e che, non sapendo bene come arginarla, si trincera dietro un magro numero di certezze, chiudendosi su se stessa e rifiutando l´Altro.

Una parte sempre più grande dell´opinione pubblica resta infatti indifferente di fronte alle violenze che subiscono coloro che parlano un´altra lingua, che vengono da un´altra cultura, che hanno un orientamento sessuale differente o che si allontanano dalla morale convenzionale e dalle tradizioni locali.
Che si tratti degli extracomunitari o degli omosessuali, l´atteggiamento più diffuso è chiudere gli occhi e far finta di niente. E, quando se ne parla, spesso si minimizza o si altera la realtà. «Non c´è assolutamente un´escalation di violenza contro i gay. Roma è una città tollerante», dichiara il 27 agosto Gianni Alemanno, come se l´attentato incendiario alla discoteca gay del Muccassassina, appena quattro giorni dopo l´agguato omofobo dell´Eur, non meritasse un serio dibattito sulla necessaria protezione delle minoranze. «La legge italiana sull´immigrazione e i respingimenti non sono un atto di razzismo, ma di civiltà», afferma il ministro Luca Zaia il 24 agosto, ospite di Klaus Davi, qualche giorno dopo la tragica morte di oltre 70 immigrati che cercavano di raggiungere la Sicilia, come se ogni extracomunitario, prosegue il ministro, fosse «destinato a ingrossare le fila della criminalità».
Nonostante alcune voci discordanti comincino a farsi sentire per denunciare il razzismo e l´intolleranza, la xenofobia e l´omofobia aumentano nel nostro paese, conseguenze di una cultura della non-accoglienza che genera e alimenta la paura nei confronti di tutto ciò che è diverso. Come negare d´altronde l´esistenza di un´ideologia dell´intolleranza quando alcune persone sembrano giustificare gli atti di violenza contro gli omosessuali perché “provocati” dai loro gesti di tenerezza, come spiega l´aggressore dell´Eur?
In ogni epoca storica, anche se in modo diverso, la gente ha avuto paura del disordine, e le società si sono organizzate in modo tale da allontanare tutto ciò che potesse destabilizzarle. Ma è soprattutto nei periodi di transizione e di crisi che si è assistito a reazioni esasperate di rigetto dei “diversi”, come se l´unica soluzione per calmare l´angoscia della gente consistesse nell´identificare capri espiatori da sacrificare. Per secoli, il ruolo di capro espiatorio è stato giocato dai lebbrosi o dagli ebrei. Poi è stato il turno dei malati mentali e dei criminali. Oggi, non è forse la volta degli extracomunitari e degli omosessuali? Incarnazione perfetta della “devianza”, queste nuove vittime sacrificali sembrano permettere alla gente di illudersi che a partire dal momento in cui gli extracomunitari saranno banditi dalla società e gli omosessuali ridimensionati nelle loro “eccessive” richieste non ci sarà più ragione di aver paura…
Ma il vero problema non è la paura – reazione spontanea di tutti di fronte al pericolo. Il problema è la sua strumentalizzazione politica. Un conto, infatti, è aver paura di ciò che non si conosce ancora, aprendosi tuttavia all´altro per costruire un clima di fiducia e di rispetto reciproci; altro conto è trincerarsi dietro la paura, strumentalizzarla, e combattere sistematicamente gli “altri”, come se la differenza fosse sempre sinonimo di pericolo.
Certo l´Altro, in quanto “altro”, disturba e sconcerta. A causa della sua “differenza”, l´altro obbliga ognuno di noi a interrogarsi sul ruolo che l´alterità occupa nella nostra vita, e sullo spazio che siamo disposti a darle. La differenza rinvia a ciò che si pensa di non essere e di non diventare, alla nostra fragilità e alle nostre debolezze. L´altro è il contrario dell´ordinario e dell´abituale. È per questo che lo si rifiuta: ci fa paura perché richiama “l´inquietante stranezza” di cui parlava Freud, il fatto cioè che ognuno di noi porti all´interno di sé una parte sconosciuta, una zona d´ombra che si cerca di soffocare e che si risveglia quando ci si confronta con gli altri, i diversi, gli stranieri. Non è un caso che la nozione di identità (personale o nazionale) sia stata spesso utilizzata per far credere alla gente che esista una barriera rigida capace di distinguere l´io dal non-io, il fratello dallo straniero: una barriera che si erige ogniqualvolta una cultura o una società non riesce né a pensare l´altro, né a pensarsi con l´altro; una barriera che spinge le persone a trattare tutti coloro che sono diversi come dei “mostri” capaci di minacciare la loro stessa esistenza.
Nel momento stesso in cui, con la globalizzazione, si valorizzano i legami d´interdipendenza tra gli uomini e le donne di tutto il mondo e in cui, grazie a Internet, ognuno è ormai libero di comunicare con tutti indipendentemente dalle frontiere, emergono paradossalmente nuovi muri che impediscono alle persone non solo di spostarsi liberamente, soprattutto quando si tratta dei più poveri e dei più fragili, ma anche di dialogare fraternamente con coloro che sono diversi. Da una parte, si consacra il libero mercato. Dall´altro, le frontiere si chiudono. Nel cuore stesso dell´Italia sorgono muri e barriere fisiche o simboliche che ci separano gli uni dagli altri, che ghettizzano tutti coloro che non corrispondono agli standard di “normalità”.
È un modo di garantire la sicurezza sul territorio nazionale e di proteggere gli italiani, dicono in molti. È un modo per salvaguardare i valori tradizionali, aggiungono in tanti. È l´unica soluzione per contenere la paura, credono quasi tutti. Ma la paura diminuisce solo apparentemente. Perché il risultato, in realtà, è opposto alle aspettative: invece di proteggere, le barriere cristallizzano le differenze, favoriscono il ripiego identitario e alimentano proprio quella paura che dovrebbero contenere. Più ci si chiude all´altro, più la paura aumenta. Perché progressivamente si finisce col credere che i nemici siano ovunque e che tutti i mezzi siano legittimi per proteggersi.
Spetta allora a ognuno di noi restare vigilante e non soccombere alla paura e alla sua strumentalizzazione. Perché, “come la notte, anche l´oppressione arriva progressivamente”, diceva William O. Douglas, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti all´epoca del Maccartismo. È giunto il momento di prestare attenzione ai cambiamenti, anche impercettibili, se si vuole evitare di soccombere, senza rendersene conto, al crepuscolo dell´intolleranza.

La Repubblica, 31 agosto 2009

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