Esploso in questi mesi come una battaglia di verità, davanti alle contraddizioni e alle bugie del premier, lo scandalo Berlusconi diventa oggi un problema di libertà, come sottolineano tutti i grandi quotidiani europei, evidenziando ancor più il conformismo silente dei giornali italiani. Prima la denuncia giudiziaria delle 10 domande di “Repubblica”, un caso unico al mondo: un leader che cita in giudizio le domande che gli vengono rivolte, per farle bloccare e cancellare, visto che non può rispondere. Poi l’intimidazione alla stampa europea, perché non si occupi dello scandalo. Quindi il tentativo di impedire la citazione in Italia degli articoli dei giornali stranieri, in modo che il nostro Paese resti all’oscuro di tutto. Ecco cosa sta avvenendo nei confronti della libertà di informazione nel nostro Paese.
A tutto ciò, si aggiunge lo scandalo permanente, ma ogni giorno più grave, della poltiglia giornalistica che la Rai serve ai suoi telespettatori, per fare il paio con Mediaset, l’azienda televisiva di proprietà del premier. È uno scandalo che tutti conoscono e che troppi accettano come una malattia cronica e inguaribile della nostra democrazia. E invece l’escalation illiberale di questi giorni conferma che la battaglia di libertà si gioca soprattutto qui. La falsificazione dei fatti, la mortificante soppressione delle notizie ridotte a pasticcio incomprensibile, rendono impossibile il formarsi di una pubblica opinione informata e consapevole, dunque autonoma. Anzi, il degrado dei telegiornali fa il paio con il pestaggio mediatico dei giornali berlusconiani. Molto semplicemente, il congresso del pd, invece di contemplare il proprio ombelico, dovrebbe cominciare da viale Mazzini, sollevando questa battaglia di libertà come questione centrale, oggi, della democrazia italiana.
In quest’ultima stagione del berlusconismo abbiamo contemplato l’apice del conflitto d’interessi, l’anomalia più grave (a questo punto la mostruosità) della politica italiana. Si è vista l’occupazione della Rai e specialmente dei vertici dei telegiornali, cioè ruoli pubblici trasformati in postazioni partigiane; e nello stesso tempo la blindatura militare dei media di proprietà diretta o indiretta del capo del governo.
Berlusconi voleva un’anestesia della società italiana, in modo da poter comunicare ai cittadini esclusivamente le sue verità, i successi, le vittorie, le sue spettacolari “scese in campo” contro i problemi nazionali. L’immondizia a Napoli, il terremoto in Abruzzo, la continua minimizzazione della recessione. Una e una sola voce doveva essere udita, e gli strumenti a disposizione hanno fatto sì che fosse praticamente l’unica a essere diffusa e ascoltata.
Ma evidentemente tutto questo non bastava. Non bastava una maggioranza parlamentare praticamente inscalfibile. Non bastava al capo del governo neppure il consenso continuamente sbandierato a suon di sondaggi. Nel momento in cui la libertà di informazione ha investito lo stile di vita di Berlusconi, e soprattutto il caotico intreccio di rozzi comportamenti privati in luoghi pubblici o semi-istituzionali, il capo della destra ha deciso che occorreva usare non uno bensì due strumenti: il silenziatore, per confondere e zittire l’opinione pubblica, e il bastone, per impedire l’esercizio di un’informazione libera.
Negli ultimi mesi chiunque non sia particolarmente addentro alla politica ha potuto capire ben poco, in base al “sistema” dei telegiornali allineati, dello scandalo che si stava addensando sul premier. Un’informazione spezzettata, rimontata in modo incomprensibile, privata scientemente delle notizie essenziali, ha occultato gli elementi centrali della vicenda della prostituzione di regime. Allorché alla lunga lo scandalo ha bucato la cortina del silenzio, è scattata la seconda fase, quella dell’intimidazione. L’aggressione contro il direttore di Avvenire, Dino Boffo, risulta a questo punto esemplare: il giornale di famiglia, riportato rapidamente a una funzione di assalto, fa partire il suo siluro; nello stesso tempo l’informazione televisiva, con una farragine di servizi senza capo né coda, rende sostanzialmente incomprensibile il caso.
Come in una specie di teoria di Clausewitz rivisitata e volgare, il killeraggio giornalistico, cioè una forma di guerra totale, priva di qualsiasi inibizione, si rivela un proseguimento della politica con altri mezzi. In grado anche di fronteggiare le ripercussioni diplomatiche con la segreteria di Stato vaticana e con la Cei. La strategia rischia di essere efficace, peccato che configuri un drammatico problema di sistema. Ossia una ferita gravissima a uno dei fondamenti della democrazia reale (non dell’astratta democrazia liberale descritta dai nostri flebili maestri quotidiani). Purtroppo non si sa nemmeno a quali riserve di democrazia ci si possa appellare. Ci sono ancoraggi, istituzioni, risorse di etica e di libertà a cui fare riferimento? Oppure il peggio è già avvenuto, e i principi essenziali della nostra democrazia sono già stati frantumati?
Basta una scorsa alla più accreditata informazione straniera per rendersi conto del penoso provincialismo con cui questo problema viene trattato qui in Italia, della speciosità delle argomentazioni, del servilismo della destra (un esponente della maggioranza ha dichiarato ai tg che la rinuncia di Berlusconi a partecipare alla Perdonanza, dopo l’attacco del Giornale a Boffo, “disgustoso” per il presidente della Cei Angelo Bagnasco, era un atto “di straordinario valore cristiano”). Oltretutto, risulta insopportabile l’idea che nel nostro futuro, cioè nella nostra politica, nella nostra cultura, nella nostra idea di un paese, ci sia un blocco costituito dall’informazione di potere, un consenso organizzato mediaticamente nella società, e al di fuori di questo perimetro pochi e rischiosi luoghi di dissenso. Questa non è una democrazia. È un regime che non vuole più nemmeno esibire una tolleranza di facciata. Quando tutti se ne renderanno conto sarà sempre troppo tardi.
La Repubblica, 31 agosto 2009
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