L’Italia ha le traveggole, verrebbe da pensare. Perché i due temi che campeggiano nel nostro dibattito pubblico, anzi la doppia polemica che ci avvolge come una nuvola di smog reca in sé un ossimoro, una contraddizione. Eppure in entrambi i casi a darle corpo sono i fatti, non una chiacchiera sotto l’ombrellone.
È un fatto, in primo luogo, che il Belpaese è ormai uno spezzatino. Nei suoi simboli identitari, dato che la Costituzione rimane un oggetto misterioso, dato che l’inno nazionale è stato messo in discussione, dato che c’è chi vuol affiancare al tricolore le bandiere regionali, dato infine che persino la lingua ci divide, con l’idea dei dialetti obbligatori nelle scuole. Nei valori della fede, benzina per la guerra in corso tra guelfi e ghibellini, ora per la pillola abortiva Ru486, ora per l’insegnamento della religione, ora per il testamento biologico. Nelle disparità economiche, che il federalismo fiscale promette d’accentuare, mentre nel frattempo incalza la proposta delle gabbie salariali. Nella rappresentanza nazionale in Parlamento, con un partito del Nord che rastrella il 10 per cento dei consensi, sicché l’antico Regno dei Borboni sta per opporgli un partito del Sud. Insomma l’unità d’Italia è diventata un’impostura, o al più un ricordo dell’infanzia. Ovvio che le celebrazioni per i suoi 150 anni di carriera siano ferme al palo, nonostante moniti ed allarmi.
È un fatto, in secondo luogo, che questa marmellata nazionale alimenta tuttavia una politica dura come il ferro, permeata da istinti muscolari, incline a derive autoritarie. Può sembrare l’opinione di qualche intellettuale pallido, magari abbagliato dalle tante ordinanze dei sindaci sceriffi, che per esempio a Sanremo vietano a chiunque di sedersi fuori dalle panchine comunali, a Voghera vietano invece le panchine, quando ci s’accomoda in più di tre persone. Ma le prove sono ben maggiori, e soprattutto è ormai corale la denuncia. Il segretario del Pd, Franceschini, ha appena messo in guardia gli italiani dal pericolo d’un nuovo autoritarismo, e intanto prepara una mobilitazione straordinaria per la libertà d’informazione. Il presidente della Camera, Fini, punta l’indice contro le politiche razziste del governo. I radicali di Pannella presentano un dossier per dimostrare che le patrie galere sono peggiorate anche rispetto ai tempi del fascismo. I valdesi digiunano per solidarietà con gli immigrati. La Chiesa cattolica si schiera senza mezzi termini contro il reato d’immigrazione clandestina, aprendo un incidente con la Lega. Perfino Lippi, ct della Nazionale, protesta dopo il sistema poliziesco deciso da Maroni, ossia la schedatura in massa dei tifosi.
Da qui una contraddizione, un bisticcio logico. Perché se il cemento che ci univa gli uni agli altri si va spappolando, allora significa che siamo rimasti orfani dello Stato, la nostra casa comune. Ma se al contempo va consumandosi una stretta autoritaria, vuol dire che di Stato ce n’è troppo, ed è così potente da prosciugare i diritti individuali. Insomma: almeno all’apparenza, il primo fenomeno suona come la negazione del secondo. A meno che non ne sia la scaturigine, ed è precisamente questa la domanda che reclama oggi una risposta. Quando l’unità d’un popolo viene messa a repentaglio, chi lo governa tende sempre a rinsaldarlo fabbricandogli un nemico. Può trattarsi d’un nemico esterno, come la perfida Albione su cui farneticava Mussolini. Oppure d’un nemico interno: i clandestini, e poi gli zingari, i lavavetri, i clochard sui quali da un mese pende l’obbligo di registrazione, perfino i tifosi. Se c’è davvero un nesso fra l’unità del popolo italiano e il suo patrimonio di diritti, faremmo meglio a darci una regolata. Senza amor di Patria, corriamo il rischio di diventare schiavi.
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