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“Un leader in mezzo al guado”, di Federico Geremicca

Alla fine del lungo faccia a faccia con Franco Marini, molti dei presenti al dibattito avevano forse più chiaro il motivo per il quale Gianfranco Fini – a differenza di molti ministri del governo in carica – non ha rifiutato l’invito rivoltogli dagli organizzatori della Festa democratica di Genova. Il presidente della Camera ha probabilmente deciso di intervenire e parlare non solo per rispetto del ruolo istituzionale che ricopre e che lo vuole super partes, ma perché aveva più di un «sassolino» da togliersi dalle scarpe. Fini lo ha chiarito fin dalle prime battute del suo intervento, ed è stato conseguente. E così, non c’è stato tema affrontato sul quale non abbia espresso posizioni del tutto dissonanti rispetto a quelle messe in campo dal Pdl – e soprattutto dalla Lega – in questo torrido mese di agosto.

Dall’immigrazione alle «gabbie salariali», dal testamento biologico («Farò il possibile per correggere il testo») fino alla legge sull’omofobia, è spesso parso ascoltare uno dei leader dell’opposizione, piuttosto che uno dei cofondatori del Pdl.

Il popolo democratico ha molto applaudito, come sovente accade quando le proprie posizioni vengono «legittimate» da interventi del campo avverso. Ha applaudito e si è interrogato intorno alle ragioni per le quali (non da ora) l’ex leader di Alleanza nazionale è solito prendere vistosamente le distanze dalla maggioranza che pure lo ha eletto presidente della Camera. Secondo gli scettici, Fini – con Berlusconi e Bossi – sarebbe nient’altro che il terzo attore di una sorta di oggettivo gioco delle parti che consente alla maggioranza di governo di coprire ogni spazio politico: quello più radicale, con la Lega; quello tendenzialmente centrista – salvo frequenti scivoloni – con Berlusconi; quello perfino con venature progressiste, appunto con gli smarcamenti di Fini. È una interpretazione, quella degli scettici, non peregrina e sostenuta – in fondo – dalla storia recente: che alla fine ha visto il presidente della Camera sempre accondiscendente con Berlusconi, anche a costo di giravolte sensazionali (come a proposito, per esempio, della fondazione del Pdl).

Ma c’è un’altra interpretazione possibile della linea sulla quale è da tempo attestato il presidente della Camera: Fini fa sul serio, è realmente in disaccordo con molte posizioni della maggioranza (soprattutto quelle imposte dalla Lega), annusa la fine naturale del lungo ciclo berlusconiano e si prepara per il dopo. È una interpretazione certo più generosa nei confronti dell’ex numero uno di An ma per ora – e forse non può che essere così – poco suffragata da fatti importanti. Ciò non toglie che tra le cose dissonanti dette ieri da Fini, molte siano state «cattive», e una addirittura velenosa: infatti, in materia di immigrazione e sicurezza, rovesciando sul premier un’affermazione da sempre utilizzata dal Pdl contro l’opposizione, il presidente della Camera ha invitato a non seguire la Lega perché «tra l’originale e la fotocopia, l’originale è sempre più convincente».

È facile immaginare che la prima uscita di Gianfranco Fini non sia granché piaciuta a Silvio Berlusconi, perché anche un eventuale gioco delle parti – insomma – va calibrato. Dal canto suo, però, l’opposizione sbaglierebbe a gioire per questo e ad enfatizzare oltre misura le cose dette ieri dal presidente della Camera. Infatti, nel giorno in cui – dal meeting di Rimini – Mario Draghi fa sapere che per l’Italia l’uscita dalla crisi sarà più difficile che per altri Paesi e si appella «a tutti» affinché si metta mano a riforme non più rinviabili (altro intervento che non sarà piaciuto né al premier né a Giulio Tremonti), ecco, in un giorno così, piuttosto che gioire l’opposizione farebbe bene a prendere Fini in parola ed a sfidarlo: chiedendogli, anche alla luce della carica che ricopre, di rispondere all’appello di Draghi e di dare impulso allo sforzo riformatore sollecitato dal governatore. Gianfranco Fini ha gli strumenti per farlo: sia politici, dovuti al suo prestigio, sia operativi, derivanti dalla carica che ricopre. Operando nelle direzioni che lui stesso indica, insomma, il presidente della Camera renderebbe un servizio al Paese fugando, contemporaneamente, interrogativi e sospetti intorno alle ragioni del suo dissenso.

La Stampa, 27 agosto 2009

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