lavoro

“L’orgoglio del lavoro”, di Susanna Camusso

I dipendenti della Lasme, che lavorano per la Fiat, scrivono alla Cgil per denunciare la loro solitudine di fronte all’annuncio della chiusura; i lavoratori della Cnh di Imola presidiano da due mesi lo stabilimento per scongiurare la chiusura decisa ancora dalla Fiat. Solitudine, delusione, paura, perdita della speranza sono parole troppo spesso ricorrenti davanti alle moltissime aziende, presidiate e non, dove la lotta per difendere il posto di lavoro diventa anche l’angosciante interrogativo sull’invisibilità del lavoro stesso. Un messaggio forte, innanzitutto al sindacato e alla sua responsabilità
di solidarietà e unità.
Gli operai spariti dalle cronache, dichiarati spesso ormai estinti,
per tornare visibili, per dichiarare la loro esistenza – sono svariati milioni – devono domandarsi quali azioni clamorose compiere.
Un dato amaro su cui riflettere: le forme classiche della lotta
operaia non appaiono più sufficienti, non danno abbastanza speranza, sembrano non riempire quel vuoto creato dalla possibile perdita del lavoro, dalla paura di un futuro senza certezze e senza identità. Perché l’autunno orribile che si annuncia, quello delle conseguenze della crisi sull’occupazione, piomba su un Paese abituato a pensare individualmente, dove il messaggio della divisione, degli uni contro gli altri, è stato lo strumento attraverso cui negare la crisi, mostrando governanti sorridenti e sempre pronti a promettere che
nessuno sarebbe stato lasciato indietro. Perché se quei molti che rischiano di essere espulsi dal lavoro non vengono mostrati, cala il sipario, il paese delle favole prende il posto di quello reale. Il contesto perfetto perché si configuri l’eroe solitario, colui che, disposto a gesti estremi su se stesso, vuol ridare speranza a quelli che la perdono di fronte al silenzio che rimbalza sul loro presidio.
Un eroe solitario diverso, che fa della solidarietà e della vicinanza dei colleghi e della famiglia la ragione del proprio gesto. Un gesto di cui sottolinea il senso estremo: urgono risposte perché non si può chiudere la fabbrica nel silenzio.
Una domanda va fatta alla Fiat: quanto vale, nella crisi, ora, la
responsabilità sociale di un’impresa? Vale così poco da poter
osservare impassibili i lavoratori che chiedono solo di continuare il proprio lavoro? E al governo che nega la prosecuzione della cassa integrazione ordinaria non viene il dubbio che predicare sulla vita per imporre l’accanimento terapeutico serva solo a nascondere il cinismo contro i migranti e i lavoratori ai quali si fanno pagare tutti i costi della crisi? Ma una domanda va fatta anche a tutti noi e all’informazione tutta: quanto si può aspettare ancora per dire che il lavoro c’è e ci sono milioni di persone orgogliose del lavoro, milioni di persone che sanno che la loro vita, identità, futuro si realizza con esso e non vogliono vederselo portare via? Farlo subito, ridare dimensione collettiva, costruire soluzioni. Non costringiamo nessuno a fare l’eroe solitario.
L’Unità 26.08.09