Assisteremo alla monetizzazione della celebrazione dell’anniversario dell’unità d’Italia. «Quanto ci costerà?» – è la domanda-chiave del governo. Non si chiede «che cosa esattamente dovremo celebrare?». Questa domanda infatti rischierebbe di mettere in crisi il governo, ben più seriamente dei comportamenti del premier. Il leghismo, sicuro della propria impunità, continuerà la sua recita anti-italiana grazie anche ad un sistema mediatico senza spina dorsale.
Nell’attuale clima politico la Lega non ha più nulla da temere, neppure dai rappresentanti dell’ex Alleanza nazionale, che si limitano a fare battute imbarazzate, pur di non mettere in difficoltà il governo cui sono attaccatissimi.
Sono passati quindici anni da quando ci siamo interrogati se non fossimo sul punto di «cessare di essere una nazione». Da allora, apparentemente non è successo nulla. In realtà il processo è andato avanti sotterraneamente, ma la questione di fondo è stata congelata, elusa. Certo: il linguaggio pubblico «politicamente corretto» ha adottato un tenue vocabolario patriottico. E’ tornata in onore la bandiera nazionale. Ma niente di impegnativo.
In tutti questi anni la cultura politica ha mancato di affrontare alla radice il problema storico della nazione italiana – a dispetto del lavoro fatto dalla storiografia che è rimasto sostanzialmente chiuso nel circuito accademico. La classe politica e i suoi rappresentanti intellettuali non hanno saputo elaborare un punto di vista storico-politico attuale da cui rivisitare in modo innovativo la storia nazionale. L’importante concetto di «patriottismo costituzionale», messo a fuoco quindici anni fa, è stato annacquato in una retorica nominalistica oppure criticato con toni di sufficienza per la sua presunta astrattezza. Così oggi siamo al punto di prima, anzi peggio di prima. Culturalmente immiseriti e profondamente divisi sul piano politico.
Ma che cosa si deve «celebrare» nel 150ª dell’Unità d’Italia? La dinamica politico-diplomatica (anche internazionale) con cui si è arrivati nel 1861 all’unificazione, per altro incompleta per le significative assenze di Venezia, Roma e naturalmente Trento e Trieste? Dobbiamo festeggiare le decisioni immediatamente prese in tema di centralizzazione statale anziché di decentramento amministrativo? O chiederci perché si è scartata l’opzione federalista che pure era stata presa in considerazione? Non è il caso di rivedere seriamente il pensiero di Carlo Cattaneo per sbugiardare Bossi e i suoi che lo citano? Dobbiamo ripercorrere criticamente la politica sociale e culturale adottata per «fare gli italiani»? O riaprire ancora una volta la questione della piemontesizzazione o, viceversa, della meridionalizzazione dell’apparato statale? O la piaga del brigantaggio? Dobbiamo ignorare la sconsiderata, irragionevole opposizione della Chiesa che ancora oggi la storiografia clericale si ostina a presentare in termini di «persecuzione laicista» della Chiesa?
Come si vede, i motivi di riflessione sono innumerevoli. Non sono per niente nuovi, ma arricchiti di materiali documentari sempre più ampi. Ciò che manca è la capacità di sintesi che sappia offrire anche una proposta o un’ipotesi di «educazione civile» per una nuova identità collettiva oggi, in una società tentata come mai da rotture centrifughe. E’ solo incapacità della classe politica nel suo insieme? Oppure siamo davanti ad una disgregazione profonda della società civile stessa? In questa situazione chi deve tentare la sintesi di cui parliamo?
Ricordo anni fa il tono deciso con cui un noto storico, oggi attivamente coinvolto in prima persona in questa problematica, respingeva come inaccettabile l’idea che dovessero essere gli storici ad assumere il ruolo di interpreti della nuova coscienza nazionale democratica (nell’ottica ad esempio del «patriottismo costituzionale»). Il compito degli storici – mi è stato replicato – è quello di analizzare e criticare, non di proporre forme di educazione alla nazione democratica. Era una risposta apparentemente ineccepibile, in realtà dettata dal timore di nuove «egemonie culturali» (di sinistra). Di fatto non c’è stato alcun tentativo egemonico né da sinistra né da destra né dal centro. Il risultato è lo strazio attuale. Una storia-fai-da-te con un impressionante impoverimento culturale generale.
Tornando alle celebrazioni dell’Unità, non so quali siano i compiti specifici del Comitato istituito ad hoc. Non potrà certo limitarsi a fare un elenco di manifestazioni, di incontri, di conferenze di alto livello o di iniziative mediatiche e artistico-letterarie connesse. Nel clima politico odierno non potrà dare per scontato il senso dell’anniversario. Generiche e solenni dichiarazioni di circostanza sarebbero fuori luogo. D’altro lato non ci si può aspettare in quella sede una rivisitazione storica approfondita a tutto tondo dell’evento celebrato, sia pure accompagnato dalle necessarie considerazioni critiche e problematiche. Questo è un tipico lavoro che attendiamo venga fatto in sede scientifica adeguata. Ma ritengo che il Comitato debba esprimere comunque un chiaro orientamento che tenga conto dei quesiti ricordati sopra: che cosa celebriamo esattamente? Quale valore specifico ci trasmette oggi quell’evento storico, al di là della ricorrenza del calendario? Quali sono le buone ragioni per continuare ad essere oggi una nazione unitaria?
E’ facile prevedere che un testo che tentasse di rispondere a queste domande si presterà a critiche da tutte le parti. Ma non è questo il punto. Trovo importante che in sede responsabile non si faccia finta di nulla, ma si abbia il coraggio di offrire una interpretazione che risponda agli interrogativi che si pongono gli italiani più sensibili. Anche se non taciterà i cattivi italiani.
La Stampa, 25 agosto 2009