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“Così il PD ha perso la voce”, di Luigi La Spina

Un assordante silenzio. L’esempio più scolastico di un ossimoro potrebbe davvero definire l’afasia politica che ha caratterizzato l’agosto del principale partito d’opposizione. Sia sulle grandi questioni internazionali, come la difficile situazione in Afghanistan e in Iraq, sia sul dibattito in vista delle prospettive autunnali della nostra economia, fino ad arrivare alle baruffe estive sull’Inno di Mameli o sui dialetti, il Pd si è distinto per una assoluta mancanza di reazioni. Un riserbo insolito per le abitudini della politica italiana, dove l’esternazione prevale sempre sulla meditazione.

Le uniche voci che si sono udite da quelle parti, ascoltate peraltro senza suscitare particolari emozioni, sono state raccolte in alcune interviste ai due contendenti favoriti per la futura segreteria del Pd, Bersani e Franceschini, impegnati in qualche stanca polemica interna.

Poiché l’auto-oscuramente dialettico agostano sarà forzatamente interrotto dall’avvenuta apertura della festa nazionale di quel partito, a Genova, c’è da sperare che la lunga pausa, dedita evidentemente a una profonda riflessione, sia servita affinché i leader Pd ci rivelino finalmente una organica, concreta e innovativa proposta di governo del nostro Paese. Tutti gli italiani, sia quelli che hanno votato per Berlusconi, sia quelli che non l’hanno fatto, vorrebbero confrontare le ricette finora attuate dall’esecutivo con quelle suggerite dal maggior partito dell’opposizione. Senza dover solo ascoltare battute, più o meno divertenti, sulla vita privata del presidente del Consiglio o critiche alle misure governative prive, però, di una esposizione delle ipotesi alternative basate su realistici e sostenibili conti di spesa.
L’improvviso mutismo dei dirigenti democratici è apparso l’inevitabile risultato di una delusione largamente scontata e da loro del tutto prevista: quella seguita all’annunciato fallimento della campagna per far dimettere Berlusconi a causa del sue vicende sessual-matrimoniali. Una sindrome tipica di frustrazione, umana prima che politica, che colpisce inevitabilmente chi è stato costretto a partecipare a una battaglia, sapendo già che l’esito sarà infausto.

A questo punto, il rischio più grave per quel partito è che l’avvicinarsi della data del congresso finisca per accentuare il fenomeno di introversione politica del Pd. Una sindrome solipsistica che, comprensibile nella prima fase di ricerca dei motivi della sconfitta elettorale, non solo si è trascinata per un tempo insopportabilmente lungo, ma, di fatto, ha spento il collegamento tra il partito e la sua base elettorale.

In una democrazia regolarmente funzionante, infatti, occorre sia che l’opposizione sappia influire sull’operato della maggioranza, sia che non lasci quella parte di elettorato che non ha aderito alle proposte governative senza una salda rappresentanza politica.

Tra gli altri, si possono citare due clamorosi esempi di allentamento del legame che il Pd ha sempre avuto con categorie sociali e professionali vicine al partito. Il primo caso si è manifestato con la vicenda degli operai milanesi della Innse saliti per giorni su una gru, pur di difendere il posto di lavoro in pericolo per la minacciata chiusura dell’attività nella fabbrica dove lavorano. In altri tempi, la solidarietà del partito alla loro lotta si sarebbe manifestata con la tradizione di vigore e di clamore che tutti ricordiamo. In questa occasione, invece, l’appoggio è stato molto flebile e la voce del Pd si è confusa nel generico coro di auspici che veniva dalla classe politica locale.

L’altro clamoroso esempio, a questo proposito, è venuto dalla fiacca, generica e imbarazzata reazione del Pd alle iniziative del ministro Gelmini sulla scuola. Maestri e professori, notoriamente, costituiscono, o costituivano, una delle riserve privilegiate per i consensi al maggior partito dell’opposizione italiana. Ebbene, il Pd, diviso tra la consapevolezza della insostenibilità dell’andazzo corrente nelle aule del nostro Paese e l’impossibilità di ammettere la corresponsabilità per una egemonia culturale e politica in quel settore che ha prodotto risultati così negativi, non ha saputo opporre alle riforme governative alcun progetto credibile e organico di serio cambiamento. Limitandosi ad opporsi ritualmente alle proposte della Gelmini e lasciando sostanzialmente soli quegli insegnanti che pur fanno riferimento al partito.

Sono giuste le preoccupazioni di chi lamenta un panorama politico esclusivamente monopolizzato dal duello interno tra Lega e Partito della libertà e da un orizzonte culturale limitato al contrastato rapporto tra il governo e il Vaticano. Ma anche la «solitudine» di importanti ceti sociali del nostro Paese che non si sentono più difesi dai loro tradizionali rappresentanti nella classe politica nazionale consegna al futuro della nostra democrazia molte inquietudini.
La Stampa 23.08.09

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