«Lo scenario è preoccupante – dice Anna Maria Artoni, presidente degli industriali dell´Emilia Romagna -. Molte piccole aziende rischiano di non avere i soldi necessari per riprendere l´attività a settembre».
Eppure anche il presidente della Banca centrale americana, Ben Bernanke, ha espresso un moderato ottimismo sulla fine della crisi. Lei non condivide questa analisi?
«È vero che ci sono segnali positivi in Francia, in Germania e negli stessi Stati Uniti, ma non si può ancora dire altrettanto per l´Italia. Noi siamo entrati in ritardo in questa crisi, ne usciremo dopo e anche a una velocità più bassa rispetto agli altri. Eravamo quelli che crescevano di meno nella fase pre-crisi e la possibilità di trovarci con gli stessi difetti è molto alta».
Non crede invece, come sostiene il presidente Berlusconi, che usciremo “più forti” dalla recessione proprio grazie al nostro modello di capitalismo?
«È vero che il nostro “provincialismo” da questo punto di vista ci ha salvati e ci ha fatto soffrire meno. Ma con un crollo dei fatturati, alcuni nell´ordine del 40, 50 per cento, sarà molto difficile che ce la facciano tutte le imprese. C´è il rischio di non avere le risorse finanziare necessarie per riprendere a settembre quando il fatturato da scontare sarà ai livelli di agosto, cioè basso, e le uscite per pagare i fornitori ai livelli di maggio-giugno. In queste condizioni sarà molto difficile ottenere il credito dalle banche, al di là del pur positivo accordo con l´Abi sulla moratoria sui prestiti».
Allora ha ragione la Cgil quando lancia l´allarme occupazione e ipotizza un taglio di un milione di posti di lavoro?
«Sinceramente non lo so. Certo – e lo dico con orgoglio – gli imprenditori italiani hanno reagito meglio che in altri paesi dove i licenziamenti sono stati molto più consistenti. Vanno riconosciuti il comportamento serio dei sindacati e gli sforzi compiuti dal governo per finanziare gli ammortizzatori sociali. Ma questo non basta più. Insieme alle misure per tamponare l´emergenza, bisogna recuperare il gap che già ci divideva dalle altre economie perché non possiamo candidarci a restare il fanalino di coda».
Cosa propone?
«L´unica cosa da fare è riavviare in maniera massiccia gli investimenti pubblici in utili opere infrastrutturali, visto che ora pare che ci siano i soldi, da quelli del Cipe a quelli del Fondo europeo. Tremonti, in continuità con il suo predecessore, ha saputo evitare che il debito pubblico straripasse. È stato fatto un buon lavoro che ora ci permette di aprire una nuova fase di investimenti».
E le imprese? Non spetta anche a loro investire?
«Certo. Ma in questo momento le risorse stanno nel pubblico. Poi, va da sé, sopravviveranno alla crisi solo le aziende che sapranno investire in innovazione e in qualità. I consumatori saranno sempre più esigenti ma anche poco inclini a spendere troppo».
Resta comunque una domanda interna asfittica per il boom della cassa integrazione ma anche perché da decenni le retribuzioni italiane sono tra le più basse in Europa. I salari andrebbero agganciati al costo della vita territoriale, come propone la Lega?
«No. Le retribuzioni vanno collegate all´andamento delle singole aziende che è diverso anche nello stesso territorio. D´altra parte è questo l´obiettivo principale della riforma dei contratti».
Il “modello Innse” con gli operai che salvano la loro azienda attuando una protesta clamorosa potrebbe essere imitata?
«Affrontare in maniera pragmatica e non ideologica le crisi aziendali è il modo migliore per contenerne gli effetti sociali. In generale, però, è il mercato che crea le opportunità imprenditoriali».
La Repubblica 23.08.09
Pubblicato il 23 Agosto 2009
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