Giuliano Amato parla della ripresa che, timida, manda segnali d’ottimismo da Germania e Francia, ma non ancora da noi né nel resto del continente, e nota subito come l’Europa non abbia mantenuto la sua vecchia promessa: «E cioè garantire al suo interno convergenze economiche sufficienti per evitare questi divari».
Chi ne porta la responsabilità?
«Lo scollamento ha ragioni sia nazionali che europee, sarebbe ingiusto ce le caricassimo addosso tutte. Se l’Europa si fosse dotata di mezzi centrali “federali” per fronteggiare gli effetti asimmetrici delle crisi economiche, probabilmente nei mesi passati avremmo colmato distanze altrimenti inevitabili. Piaccia o non piaccia, e non piace alla parte politica alla quale appartengo, un Paese di eurolandia con un forte debito pubblico non ha gli stessi margini di sostegno dell’economia che hanno altri con minore debito».
Noi, invece, che vizi abbiamo?
«Naturalmente ci possono essere anche responsabilità nostre, certo. Ma intendo dire che leggere questi dati, per uno come me, significa vedere un semi fallimento del coordinamento economico europeo più che italiano. Ravviso il permanere dei tradizionali problemi italiani: il debito pubblico, innanzitutto; ma anche un sistema-non sistema di piccole e medie imprese che sono la sua forza e la sua debolezza. Forza che deriva dalla loro flessibilità; debolezza perché nei momenti come questi sono sottratte ad una parte degli interventi pubblici di stimolo».
In che senso?
«Le banche hanno avuto dalle banche centrali miliardi e miliardi di dollari per sostenere l’economia. Però è più facile che il ministro inglese Mandelson ne destini una grossa fetta all’Airbus, che non le nostre banche alle piccole e piccolissime imprese. Per motivi più che comprensibili. D’altra parte che Francia e Germania siano più robusti dell’Italia noi non lo ammettiamo solo quando c’è Materazzi in campo…».
Ma il governo non potrebbe fare qualcosa?
«Non credo possa fare molto, comunque ha fatto. Sono assai diffidente per gli inviti alle banche a concedere il credito. Quando un governo entra troppo in questo ambito finisce per indurre le banche a dare soldi a chi non ha merito di credito e poi prendono piede anche criteri amicali».
Il Pd martella il governo, accusandolo d’essere stato immobile, di non aver aiutato le famiglie…
«E’ vero, i margini per fare di più si potevano trovare anche in ambiti diversi. La Francia ha dato molto alle imprese, la Germania invece ha distribuito equamente gli aiuti tra imprese e famiglie. In coscienza sulle famiglie avremmo potuto fare di più».
Lei come farebbe di più?
«Se devo dire la mia, qualche miliardo di euro in più si trova sempre… ma non basta. Ci vorrebbe una politica nuova delle entrate ma serve molto coraggio. Azzardo: o si trova il modo di dare una riduzione fortissima all’Irpef, compensandola, chessò, con un’imposta sulle proprietà al di sopra di un certo livello oppure calibrandola con un’imposta sui consumi. Altrimenti si è sempre lì a tormentarsi tra il debito pubblico e i quattro soldi che se ne ricavano. Questo sì sarebbe un tema meritevole di una discussione approfondita e senza tabù».
Partirebbe dal fisco?
«Meriterebbe affrontarlo, anche se non sono sicuro del risultato. Oggi i consumi interni sono deboli, ci vorrebbe una botta robusta. Una tassazione sulla proprietà è in grado di compensare l’Irpef? Certo, se diventasse una tassa sulla casa che colpisce i redditi medio bassi, allora quelli prendono giustamente il forcone e mi inseguono».
Tassare i grandi patrimoni è una strada gettonata.
«Un po’ è stato fatto da Gordon Brown nel Regno Unito, una tassazione sui grandi patrimoni quanto potrebbe dare? Certo, qui parla il perfido che mise mano ai conti correnti per non toccare l’Irpef, dunque diffidate perché chissà quante diavolerie ha in mente. Però ora non posso fare nulla e affido ad altri idee meno diaboliche. Comunque quando si invitano i governi a fare di più bisognerebbe offrire qualche alternativa, per il reperimento di entrate che non vadano ad aggravare il debito.
Si fa demagogia a piene mani, no?
«E’ così. Non voglio dire che l’unico modo per una politica di spesa risparmiosa sia la riforma delle pensioni ma qualcosa bisogna saper proporre».
In prospettiva lei come si muoverebbe?
«Importante sarebbe prendere presto un buon ritmo. Il divario con gli altri non è brutto se lo si guarda come in una fotografia. In prospettiva i rischi ci sono».
E cioè?
«Pende su di noi un rischio inflazione legato all’eventuale velocizzazione della ripresa in alcuni paesi e soprattutto alla gigantesca massa di liquidità che, per aiutare la ripresa, le banche centrali hanno creato. Liquidità che per ora sta nei cassetti, poi con la ripresa, entrerà in circolo. Mi soffermo su un dato, che mi ha colpito: i tassi a dieci anni sono al 3,5% non è tantissimo; ma è la prova delle aspettative che la situazione giri, con tassi più alti. Immaginiamo che la nostra ripresina sia lenta lenta: ad un certo punto la Bce potrebbe aumentare i tassi per evitare che la ripresa in certi paesi si scaldi troppo, razionando la massa monetaria. Per noi sarebbe una mazzata doppia: sull’economia e sul debito pubblico, per via dei tassi di interesse.
Altri rischi?
«Beh, una variabile è il prezzo del petrolio. Se schizza a 150 dollari…».
Che possono fare le piccole imprese?
«Cercare di profittare, come sempre hanno saputo fare, della ripresa altrui. L’export per noi è sempre stato importante per il nostro sviluppo».
Ma la Germania esporta più di noi eppure è già in ripresa.
«Sono state proprio le esportazioni ad aiutare la ripresa. La Germania ha esportato molto efficacemente in Cina. Il problema è avere quella organizzazione che invece non ha il grosso delle nostre imprese. Il problema è essere presenti sui grandi mercati lontani in Oriente, una sfida che richiede soluzioni più efficaci. La differenza con la crisi del ’29 è che abbiamo oggi le economie asiatiche. La Cina ha mantenuto un tasso di sviluppo del 7,9, che ha consentito la ripresa in Germania mentre consumi e pil negli Usa sono negativi. Questo ci fa capire quanto è cambiato il mondo, c’è una ripresa e la locomotiva non è quella americana. Dunque, dalla Cina non arrivano solo guai».
Prodi ha scritto sul nostro giornale della necessità che i riformisti ritrovino coraggio anche per scelte impopolari ma utili al Paese.
«Anche per arrivare ad essere impopolari ci sono modi diversi: alcuni sono fonte di danno per se stessi e per il Paese. Altri a medio termine producono un beneficio per il Paese e ne possono poi godere. Noi ci eravamo specializzati nel primo tipo di impopolarità, Romano allude al secondo».
Che consiglio dare ai riformisti sbandati?
«Se il loro riferimento non può che essere il mondo del lavoro, mi chiedo: è ancora il mondo del lavoro dipendente soltanto? Se vuoi essere maggioranza non puoi oggi nemmeno pensarlo, è evidente. Oggi molto lavoro che era dipendente è diventato autonomo. La sinistra ha qualche cosa da dire agli autonomi, oltre ai soliti salamelecchi all’artigianato o alla piccola impresa nei comizi, e accusare chiunque non sia dipendente di essere evasore fiscale? Il che non aiuta molto».
Bersani e Franceschini come li vede?
«Hanno entrambi un gradevole accento emiliano che li rende accetti al Nord senza spiacere al Sud. Il che di questi tempi non è poco».
E sulle alleanze in vista delle regionali?
«Potrebbe essere un utile laboratorio quello che sta prefigurando Galan in Veneto. Il difetto del nostro bipolarismo è che la forza di ricatto delle estreme è molto forte. Dobbiamo riuscire a verificare se siamo in grado d’avere un bipolarismo governato dai partiti di governo e non dalle rispettive estreme. Può darsi che una fase necessaria per arrivarci sia una grande coalizione italiana che includa i soli partiti di governo».
Cioè?
«Pdl, Pd e Udc. Non come formula definitiva ma come passaggio. Di sicuro potrà accadere quando saremo nel dopo Berlusconi, il suo legame con la Lega gli impedisce infatti di sperimentare la formula».
dal Messaggero del 17 agosto 2009