Ogni anno 25 mila coppie europee, e soprattutto italiane, cercano all’estero la fecondazione assistita. Vi raccontiamo il loro viaggio. Venticinquemila europei ogni anno partono sulle rotte della maternità Inseguendo il sogno di un figlio che non possono avere. Una coppia su tre parla italiano. E per aggirare i limiti imposti dalla legge 40 continua a scegliere strutture straniere Dalla Spagna ai paesi dell’Est
Ora che la Corte costituzionale ha ridotto i divieti in Italia le migrazioni possono diminuire
Migliaia di donne incrociano le dita e sperano che la dura stagione delle valigie sia finita
Ma dovrà ancora spostarsi chi punta all’eterologa, soprattutto alla donazione di ovuli. Non hanno le valigie di cartone, ma nei loro beauty-case portano lo stesso carico di ansia di un secolo fa. Anche i nuovi migranti, i nomadi della provetta, lo fanno «per i figli». I figli che non hanno, che cercano, che la scienza può dare loro, ma che in patria non possono avere. Venticinquemila europei ogni anno partono sulle rotte della fertilità, destinazione le accoglienti cliniche private dei paesi che offrono un prodotto ambito, costoso, non sempre garantito: diventare genitori.
Nelle sale d’attesa di quelle cliniche, una coppia su tre parla italiano. Lo si poteva immaginare, ma forse non in questa misura. In Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Slovenia, Spagna e Svizzera il 31.8% delle pazienti viene dal nostro paese, e finalmente è una stima reale, di fonte credibile: un’indagine campionaria appena condotta in sei paesi europei (quelli di destinazione) dall’Eshre, associazione internazionale di studi sulla procreazione assistita. Bisogna ritoccare all’insù le stime ipotetiche che finora davano un flusso annuo di quattromila coppie in uscita dall’Italia: sono quasi il doppio.
In realtà il popolo della maternità migrante è cosmopolita: i pazienti censiti dall’Eshre appartengono a ben 49 nazioni. Ma ben due terzi di loro vengono da soli quattro paesi: oltre all’Italia, la Germania (14%), l’Olanda (12.2%) e la Francia (8.7%). Le coppie italiane però, oltre ad essere le più numerose, sono anche un po’ diverse dalle altre: sono “normali”, socialmente standard, per la grande maggioranza sono regolarmente sposate (82%, rispetto alla media ben più bassa del 69.9%, mentre una francese su due convive senza matrimonio e le svedesi sono al 43.4% single).
In sette casi su dieci le coppie italiane ammettono di essersi rivolte alle cliniche straniere non in cerca di pratiche estreme, e neppure di una miglior qualità dell’intervento, ma solo perché obbligate a farlo dalla legge che vieta loro, in patria, determinati trattamenti. In verità questa motivazione è percentualmente ancora più forte tra le coppie tedesche (80,6%), che però sono la metà delle italiane, ed emigrano quasi esclusivamente per aggirare il divieto di donazione di gameti (insomma, l’eterologa), mentre le italiane, con l’approvazione della legge 40 del 2004, sono state costrette a varcare il confine anche per avere più speranze di successo nell’omologa, o per sapere in anticipo se l’embrione che accolgono è sano o ha una malattia genetica.
«L’Europa è un’assurda pelle di leopardo», commenta i risultati Luca Gianaroli, ginecologo bolognese appena eletto presidente dell’Eshre, «ciò che è vietato qui si può fare cento chilometri più in là, un caos geografico-legislativo che produce spostamenti di persone enormi e del tutto inutili, anzi economicamente dannosi: secondo i nostri calcoli, in Italia il turismo procreativo costa alle famiglie oltre 80 milioni di euro l’anno, e i lunghi spostamenti necessari fanno perdere al sistema produttivo migliaia di ore in ferie e permessi».
Il denaro, più che il tempo, sta intanto modificando la mappa delle rotte internazionali della ricerca di prole. Secondo le rilevazioni dell’associazione “Madre provetta”, dopo il boom iniziale la Spagna ha perso terreno: «Le prestazioni sono sempre adeguate», precisa la presidente Monica Soldano, «ma ormai è possibile andarci solo acquistando costosi pacchetti integrati, trattamento più viaggio e ospitalità». Così una normale fecondazione in vitro a Barcellona può costare più di 5 mila euro, mentre organizzando un viaggio fai-da-te in Grecia si può risparmiare la metà. Anche Slovenia, Russia, Turchia stanno facendosi aggressivamente avanti con proposte allettanti. Le coppie frugano Internet e partono senza consultarsi con nessuno, come se fosse una gita. «Meno di tre coppie su dieci chiedono consigli al medico che li assiste in Italia», conferma Gianaroli. Del resto, dare consigli a una coppia in partenza può essere considerato illegale dal proibizionismo italiano: l’articolo 12 comma 6 della legge punisce «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità». Così molti ginecologi alzano le spalle e dicono «arrangiatevi». «Questo significa che migliaia di donne partono allo sbaraglio, dopo aver scelto chi metterà le mani sul loro corpo consultando solo qualche sito web», denuncia Carlo Flamigni, uno dei padri della procreazione assistita in Italia, «magari influenzate da quei cataloghi coi ritratti di ovulo-donatrici giovani e bionde e tanto di tariffario: le spagnole più care, convenienti le brasiliane…». Come neo-presidente della risorta Aied, Flamigni sta pensando a un progetto che farà discutere: «Aprire, a San Marino, un consultorio gratuito per le coppie in partenza. Se ci saranno polemiche, le affronteremo: meglio evitare brutte sorprese a migliaia di persone vulnerabili che comunque partirebbero lo stesso, con o senza assistenza».
Ma la mappa della fertilità migrante potrebbe cambiare bruscamente, forse sta già cambiando. È presto per dirlo, ma almeno dall’Italia i viaggi delle cicogne ora possono diminuire. La legge dei divieti è stata ridotta a un groviera dal successo di una lunga serie di ricorsi (Tar del Lazio, tribunali di Firenze e Bologna) e soprattutto da una sentenza della Corte costituzionale dello scorso aprile, che hanno disapplicato o per lo meno indebolito molti dei niet che il referendum non riuscì a smantellare: il divieto all’impianto di più di tre embrioni, il divieto di congelamento (già soggetto ad eccezioni, ma ora affidato a scienza e coscienza del medico), il divieto di diagnosi genetica pre-impianto. Certo, il governo difende la “sua” legge sulla procreazione assistita, dunque prudenza: la battaglia giuridica può riaccendersi e al ministero pare siano già allo studio contromosse, norme-intralcio, nuovi limiti. Ma migliaia di coppie incrociano le dita e sperano che la dura stagione delle valigie sia agli sgoccioli. «Le famiglie non ce la fanno più, molte hanno finito i soldi, le ferie, la sopportazione fisica», parla per loro la battagliera Soldano.
Quante coppie partiranno lo stesso, ora che le maglie della legge 40 sono un po’ più larghe? Certo continueranno a far le valigie le coppie dell’eterologa, specialmente quelle che puntano alla “eterologa femminile”, cioè alla donazione di ovuli, in potentissima crescita soprattutto per l’aumento dell’età in cui le donne maturano la scelta di maternità (in questo caso la destinazione preferita resta la Spagna, che sembra disporre di un “parco donatrici” internazionale e inesauribile); partiranno ancora le coppie che puntano al gold standard, la massimizzazione delle potenzialità di riuscita, o a prestazioni molto sofisticate (come la Icsi, iniezione diretta nell’ovulo dello spermatozoo, specialità del Belgio); oppure le coppie che intendono generare e congelare a lungo termine una “riserva” di embrioni (ma le cliniche straniere sono poco disposte ad riempire le loro “banche” con embrioni di genitori stranieri che potrebbero anche non tornare più a riprenderli).
Anche con la legge non ancora emendata dalle sentenze, del resto, un buon 30 per cento di italiani varcavano i confini per interventi che avrebbero potuto ottenere legalmente anche in Italia. Ma del restante 70, quanti davvero rinunceranno al viaggio? «Molto dipenderà dal coraggio dei medici», avverte Soldano. Al Microcitemico di Cagliari pare ne abbiano. Stanno togliendo il cellophane che da cinque anni impacchetta gli apparecchi: a settembre, è deciso, si riparte. Il più quotato e celebre centro pubblico per la diagnosi pre-impianto, di nuovo legale, torna a funzionare. La notizia s’è sparsa, «riceviamo già decine di telefonate di prenotazione», conferma il primario di ginecologia Giovanni Monni, contento soprattutto per i suoi pazienti talassemici, «che per cinque anni sono state costretti a emigrare». Ma altrove c’è inerzia, prudenza, forse anche paura di ritorsioni. Il caso Englaro ha mostrato cosa può capitare a una clinica che si mette contro il ministero. C’è chi dice che le sentenze non bastano, che la legge è ancora pienamente in vigore. «Io spero di vivere in un paese dove le sentenze della Corte costituzionale vengono rispettate», sospira la dottoressa Claudia Livi, presidente dei 24 maggiori centri specializzati italiani coordinati nel consorzio Cecos. È pronta a osare: «Abbiamo fatto analizzare la situazione dai nostri avvocati, abbiamo diffuso ai nostri associati un preciso schema su ciò che si può di nuovo fare, che è molto di più di quel che si poteva fare nel 2004». Ci vorrà del tempo, però, per capire se le cicogne esauste potranno riposare.
La Repubblica 10.08.09